L’occasione degli ESG per ridefinire che cosa sono le “risorse umane”

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Come viene governata e che impatto ha un’azienda sull’ambiente e sulla società? Questi tre fattori: governance, impatto ambientale e impatto sociale corrispondono all’acronimo ESG di cui tanto si sente parlare ultimamente. In voga già da qualche anno, anche grazie alla significativa lettera che Larry Fink – CEO della più grande società di investimenti al mondo, la BlackRock (gestisce 10 trilioni di dollari) – manda ogni anno ai suoi azionisti, che dal 2018 parla praticamente solo dell’impatto che gli attori economici hanno sul pianeta e della corrispondente responsabilità. Da Fink in giù, e ancora di più dopo la pandemia, gli ESG sono quindi diventati la buzz word del mondo finanziario come ulteriore e importante parametro di valutazione della bontà di un’azienda: non solo profitti ma “anche” (dopo e oltre ai profitti) come questa viene governata e come tratta ambiente e persone.

Emissioni, energia, acqua, rifiuti, utilizzo dei materiali e “compliance” ambientale sono le aree di osservazione per l’aspetto ambientale; composizione del cda, retribuzione dei manager e del board, composizione azionaria ed elementi di audit, fiscali e legali lo sono dell’area governance; mentre per la parte sociale si guarda a salute e sicurezza, rispetto dei diritti umani, relazioni con gli stakeholder locali e i fornitori, formazione e “diversità ed equità” verso i dipendenti. Quest’ultimo capitolo comprende indicatori che vanno dal numero, genere ed età dei dipendenti al tipo di contratto, il numero di assunzioni e promozioni, il turnover. Ogni settore ha poi alcuni indicatori e obiettivi differenziati: per esempio in Europa i comparti assicurativo e bancario hanno obiettivi specifici sulla percentuale di donne in posizioni manageriali.

Il focus che il mondo della finanza sta mettendo su queste leve è un’opportunità unica per muovere in modo sostanziale risorse ingenti verso un progresso sociale che fin qui è stato decisamente lento, poco incentivato. C’è infatti una naturale concorrenza, nel breve termine, tra cambiamento e vantaggio economico: c’è un costo immediato, insomma, nel decidere di modificare alcune dinamiche, e di conseguenza serve un incentivo perché vi si investa. Ma, se è vero che si investe per cambiare solo ciò che viene misurato, che cosa si sta misurando? Gli ESG, in particolare gli indicatori afferenti alla categoria sociale, sono piuttosto “basilari”, e questa potrebbe essere una mancata opportunità. Sin dai tempi di Bob Kennedy si dice infatti che ciò che viene misurato “conta”, o per meglio dire fa la differenza, e allora perché non usare questa fase storica per arricchire il numero di elementi che osserviamo quando pensiamo all’impatto sociale dell’economia? Si è già visto in questi anni quanto le aziende siano in grado di far succedere, occupando in modo sano spazi mal presidiati dall’attore pubblico come quelli del welfare, avviando iniziative anche pionieristiche che sono servite come buone prassi per successive politiche pubbliche. Perché quindi contare “solo” il numero di uomini e donne, quando il tessuto sociale rivela molto di più, e non solo a un occhio attento ma a chiunque oggi viva la più semplice delle vite, destreggiandosi tra ruoli lavorativi e ruoli familiari?

Alcuni dati di partenza ci sono: già nel 2019 il prof. Joseph Fuller dell’Harvard Business School ha pubblicato un importante rapporto dal titolo “The Caring Company”, in cui metteva in evidenza come il 73% dei dipendenti delle aziende fosse in qualche modo un caregiver. A ottobre del 2021, il Governo degli Stati Uniti nel documento di “Strategia nazionale su equità ed eguaglianza di genere” ha stabilito di iniziare a monitorare e misurare in modo sistematico “dati su fattori come la gravidanza e l’essere genitori per identificare barriere nell’educazione, nell’occupazione e in altre aree”. Le dimensioni familiari, cosiddette “di cura” delle persone rappresentano infatti un fattore di diversità rispetto a uno standard (piuttosto vecchiotto) che vedeva il lavoratore ideale come completamente dedito alla dimensione professionale: il prezzo che negli ultimi cinquanta anni hanno pagato le donne provando a combinare aspetto familiare e lavorativo e il costo che ancora oggi sostengono ovunque nel mondo è la prova che il sistema continua tuttora a considerare i ruoli di cura come un’anomalia. Commenta un recente articolo dell’Harvard Business Review:

“I dati che abbiamo provano che il bias della maternità oggi in America è la forma di discriminazione prevalente della nostra economia: un blocco auto-inflitto che ci impedisce di attrarre i migliori talenti mondiali”.

Siccome però quella della cura rappresenta una diversità trasversale, che riguarda tutti, uomini e donne di ogni etnia e religione, sembra restare sullo sfondo rispetto ad altre diversità più visibili, che ricevono maggiore attenzione e “cura”. Le aziende, sempre secondo l’Harvard Business Review, sottostimano drasticamente il numero di caregiver presenti tra i propri dipendenti e l’impatto che questa dimensione ha sulle dinamiche di attrazione, valorizzazione e perdita dei talenti:

“E non si tratta solo delle madri: un terzo degli uomini cambia lavoro quando nella sua vita entra una dimensione di cura”.

La nuova attenzione del mondo finanziario verso le politiche sociali delle imprese è un’opportunità, quindi, per investire in una visione più aggiornata di chi sono le persone oggi: come si compongono le loro vite, in che modo questa composizione si traduca in sfide ma anche in opportunità, in che modo la lezione “appresa” attraverso la difficile esperienza dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro possa includere non solo le donne ma anche gli uomini di oggi, con la loro diversità rispetto a quelli di ieri. Dalla nostra capacità di introdurre negli ESG nuovi elementi di misurazione dipende la capacità del sistema di aggiornarsi rispetto alla complessità crescente del mondo attuale: l’alternativa è creare schemi che, poiché misurano il passato, producono nuove forme di discriminazione nel presente.

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