Ecco perché siamo delle buone madri, anche se perdiamo qualche recita

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Poi ti candidano come Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, e sei la prima donna di colore ad avere questa possibilità nella storia degli Stati Uniti d’America, e durante l’audizione di conferma al Senato ti ricordi di chiedere scusa alle tue figlie perché non sei stata capace di tenere sempre insieme tutto. “Ci ho provato – ha detto Ketanji Brown Jackson – ma so che per voi non è stato facile. Ci ho provato e non ce l’ho sempre fatta, ma spero che abbiate visto che, con il lavoro duro, la determinazione e l’amore, si può fare”.

“Ho provato a navigare le sfide del tenere insieme (juggle) la mia carriera e la mia maternità”

sono le parole che ha usato la giudice. Il verbo “juggle” può essere tradotto con destreggiarsi, ma viene dal mondo della giocoleria e riguarda proprio i giochi di destrezza. D’altronde da sempre si dice che le madri che lavorano sono “grandi giocoliere”, e sembra di vederle con le loro abili mani che fanno girare per aria più mondi, mantenendoli in un equilibrio sempre a rischio, che richiede loro di non distrarsi mai. E, se nel 2022 la prossima Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti si professa giocoliera di vita e lavoro, allora non è così strano per tutte e tutti noi avere questo continuo senso di colpa e di inadeguatezza che ci accompagna, questa sensazione che da qualche parte ci sia sempre qualcuno a cui dovremmo chiedere scusa perché “non ci siamo abbastanza”.

Penso alle buone intenzioni delle scuole, quando giustamente ti dicono che conoscere gli altri genitori è importante per la vita sociale stessa dei tuoi figli, e tu vorresti fermarti la mattina a prendere un caffè e invece devi lanciar fuori tuo figlio come se avessi la bat mobile e precipitarti nel traffico con poche chance di arrivare in tempo per la prima riunione del mattino.

Penso alle recite (in orario d’ufficio) che sin dalla scuola materna hanno il compito eccezionale di ricordarci che i nostri figli sono molte più cose di quel che mostrano a noi e il loro palco sarà sempre più ampio e distante da noi, rendendoci (quando va bene) solo degli emozionati spettatori.

Penso ai previsti e agli imprevisti di una quotidianità che non riesce a stare tutta dentro ad un computer, perché nemmeno l’efficienza di Amazon Prime può risolvere il libro dimenticato, la penna che si rompe, il ginocchio sbucciato, la cena da mettere in tavola. E, anche se Amazon potesse farlo, forse sarebbero cose che vorremmo tenere per noi.

Da questa parte della barricata ci sono le molte donne e i meno visibili uomini che “si barcamenano” tra vita e lavoro: persone che, come la giudice americana, dimostrano quotidianamente che “si può fare”, a condizione di metterci duro lavoro, determinazione e amore. Dall’altra parte della barricata ci sono i giovani e le giovani che questa scelta possono ancora farla o meno, e che ascoltano il sussurro silenzioso dei propri genitori, capi, insegnanti e colleghi raccontargli di un senso di colpa infinito, senza speranza di redenzione. Perché, quanto più sei pronto e hai la possibilità di esprimere ciò che sei generando (figli, ma anche progetti, idee, relazioni, soluzioni), tanto più starai creando dei mondi che dovrai far girare in aria, senza mai staccare gli occhi e con la costante sensazione che ci sia qualcosa che non va.

Che cosa non va? Come mai è possibile avere così tanto e sentire comunque che non (si) è abbastanza? Ma soprattutto, come possiamo cambiare questa situazione, questo nesso causale tra il fatto di essere molte cose e quello di doverle unire con il complemento “oppure”? Mi vengono in mente due soluzioni: una collettiva, impegnativa, sociale, che in modo frammentato sta già lavorando nelle nostre società ma che beneficerebbe di una maggiore evidenza; l’altra individuale, magica, difficile, ma profondamente efficace.

La prima soluzione riguarda il ribaltamento del paradigma tra vita e lavoro. Il senso di colpa, la tensione tra questi due mondi lavora sull’assunto implicito che la prima debba contendere e guadagnare spazio dal secondo, in una costante e quotidiana negoziazione. Sembra così che lavoriamo quasi “in opposizione” agli altri aspetti della nostra vita, invece che per essi. Per questo dobbiamo scusarci, con gli uni e con gli altri, se siamo qui e non lì: perché nel fare una cosa (nell’essere una cosa) non stiamo facendo l’altra. Ma le cose che facciamo e che siamo non sono realmente le sfere di un giocoliere, non sono cappelli che dobbiamo mettere e togliere perché la testa è una sola: sono parti di noi. Come tali, possiamo collettivamente difenderle tutte: guardarle nel loro insieme e vedere la riorganizzazione dei tempi di vita e di lavoro, dei servizi e dei modi di vivere e di lavorare come qualcosa che avviene nell’interesse di tutti e di ogni aspetto delle nostre vite, e non solo a beneficio di chi “ha bisogno” di conciliare di più. Vedendola così, la massa critica di chi ha interesse in un nuovo approccio culturale al tema dell’equilibrio vita lavoro si allarga fino a comprendere tutti, e il movimento prende il nome di sostenibilità umana.

La seconda soluzione riguarda il modo in cui ognuno di noi sente intimamente lo scorrere del tempo. Perché è soprattutto sul tempo che negoziamo, ed è soprattutto per mancanza di tempo che ci sentiamo in colpa e inadeguati. Il tempo è una valuta universale che ha la strana caratteristica che più la ottimizzi, correndo o riempiendola, e meno ne hai. Corriamo per mettere da parte del tempo che forse non incasseremo mai, come nella favola di Momo di Michael Ende. Misurato dalle lancette dei secondi, il tempo però esiste solo in quanto abitato da noi: esiste solo nella misura in cui noi esistiamo. E quindi ci appartiene, è profondamente nostro, di ognuno di noi. Non posso scegliere di allungare un minuto, ma posso scegliere come abitarlo: quanto di me farvi esistere. Come ha detto un ottantenne citato in “Aging and the Meaning of Time”:

“Ti liberi del tempo quando realizzi che è il tempo a essere in te e non tu a essere nel tempo”.

Posso insomma scegliere come stare nel tempo presente: che è un luogo ma anche un’identità, ed è così la rappresentazione più immediata di chi sono e di quel che faccio in quel momento. Lavoro, determinazione e amore, per tornare alle parole della giudice americana, usati non per “conciliare” tutto, ma come fiumi sotterranei che tutto nutrono allo stesso modo. Perché tutto fa parte di noi e, nel farlo, quel che facciamo è tutto.

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