Julia Elle: “La mia è la generazione di mezzo: dalla maternità alla genitorialità condivisa”

julia

La maternità viene vista come qualcosa di statico e non immerso nel contesto in cui si sta vivendo. Invece c’è una maternità molto diversa fra me, mia madre e mia nonna. Per la generazione delle nostre madri il concetto della maternità era prevalente, noi siamo invece la generazione che sta cercando di passare da un concetto di maternità a un concetto di genitorialità condivisa. Veniamo da famiglie in cui l’accudimento dei figli era prevalentemente della madre, ma non è il modello che stiamo replicando. Siamo una generazione di mezzo: la genitorialità condivisa è infatti poco compresa dalla generazione che ci ha preceduti ed è invece un’aspirazione per la generazione che segue“.

Julia Elle ha un modo di parlare pacato e soave perché si sente a suo agio nel ragionare sulla realtà che sta vivendo e su cui riflette quotidianamente. Mamma di 3 bambini (Cloe 8 anni, Chris 5 anni e Chiara 5 mesi), influencer e imprenditrice, ma anche moglie, cantante, lettrice appassionata. Una persona poliedrica che sembra aver trovato l’equilibrio per tenere in armonia tutti i suoi sé. Su Instagram è @Disperatamentemamma, un punto di riferimento per quante, della sua generazione e più giovani, hanno bisogno di non sentirsi sole nell’affrontare le sfide quotidiane.

Vorrei che si parlasse di genitorialità piuttosto che di maternità. Le donne vogliono essere persone al di fuori del loro ruolo di madri, perché la maternità totalizzante rischia di diventare un fardello pesante se non è una scelta consapevole e volontaria. La genitorialità condivisa, però, è ancora un utopia perché dall’altra parte deve esserci un genitori che condivida questo progetto” osserva Julia, per la quale l’incontro con l’incastro giusto è avvenuto solo di recente: “Ho scelto una persona che condividesse con me un progetto di genitorialità condivisa e lo dico dal basso dei miei fallimenti.  So cosa vuol dire avere incontrato un partner di cui innamorarsi che non aveva nessun progetto di genitorialità condivisa e so che non si sta bene. Quello che mi ha tirata fuori dalla convinzione di voler cambiare l’altro è stata una riflessione profonda e complessa su quello che volevo fosse il modello che avrebbero avuto i miei figli. Noi possiamo parlare ma poi quello che interiorizzano i figli è ciò che vedono, e io non volevo fosse quello“.

Il venir fuori da situazioni che non riteniamo adatte a noi non è scontato, costa fatica e richiede coraggio. E Julia, che ne ha pagato le conseguenze sulla sua pelle, lo sa bene. Ma sa anche come si rinasce e lo ha raccontato nel suo libro “E’ nelle tue mani“. E’ profondamente convinta che la felicità parta da se stessi e lavora quotidianamente su questo. L’essersi ritrovata le ha permesso di incontrare Riccardo, con cui ha costruito una nuova famiglia: “Condividiamo la genitorialità al di là della genitorialità biologica. Siamo genitori entrambi di tutti e tre: Cloe, Chris e Chiara. Non lo davo per scontato e sarei stata disposta a stare sola tutta la vita, perché mai più ero disposta a scendere al compromesso di una relazione che non fosse stata la condivisione di un progetto comune” spiega Julia, che riconosce comunque che “Riccardo è una grande eccezione per la sua generazione. I trentenni sono in quella fase di evoluzione di cui parlavo. I padri sono più presenti, non sono più i padri di una o due generazioni precedenti. Anche se questo dipende poi molto dai contesti“.

Eppure gli uomini non stanno facendo una battaglia per conquistare maggiori spazi e maggiori diritti come genitori. Le conquiste in tema di paternità obbligatoria (ora a 10 giorni in Italia) sono state frutto di richieste e battaglie di donne. “Gli uomini che ricoprono ruoli di potere sono di generazioni precedenti alla nostra, hanno puntato tantissimo sulla loro carriera e hanno un tipo di struttura familiare molto statico e poco flessibile. Non problematizzano e quindi non esiste la base del cambiamento a quel livello. Non vedono il problema” osserva Julia, che parlando della denatalità crescente nel nostro Paese aggiunge: “E’ innegabile che ci siano difficoltà pratiche per iniziare un progetto di genitorialità. Nella mia generazione, però, si è idealizzato quello che serve davvero per costruire la famiglia: aspettiamo il lavoro perfetto, il momento perfetto, la stabilità assoluta. Rimaniamo in un’attesa perpetua per la narrazione che abbiamo assorbito dalla generazione che ci ha cresciuto. Il lavoro definitivo, la casa di proprietà sono condizioni che non esistono più. Aspettare di avere quelle condizioni perfette vuol dire arrivare ad aspettare fino a quando è il tempo biologico che comanda. La biologia è spietata, non aspetta i tuoi progetti, non aspetta la tua maturità emotiva ed è uguale per tutti. Il mio corpo a 25 anni non è quello dei 35. La narrazione è che tu sei giovane, forte e puoi fare figli sempre. Salvo poi scoprire che non è così“.

Per Julia da 5 mesi è iniziata una nuova avventura, quella con Chiara. “La mia terza figlia non è arrivata subito e non era scontata. Di questo non si parla. Parliamo giustamente molto della contraccezione, ma allo stesso tempo bisognerebbe parlare delle possibilità che si hanno di avere figli. Ci sono tante coppie che anche dopo percorsi medici non riescono a diventare genitori e questo spesso si traduce in un dolore difficile da superare” osserva Julia, che comprende anche quali siano le ragioni di chi invece decide di non avere figli: “Ci sono donne non più disposte a scendere a un compromesso con la figura di donna con la quale sono cresciute, perché potrebbe voler dire rinunciare alle proprie ambizioni professionali e personali. Sono d’accordo con chi decide di non avvicinarsi alla maternità, perché non deve essere un sacrificio della propria soddisfazione personale, altrimenti perpetriamo la figura di genitore insoddisfatto. Ma c’è la possibilità anche di essere madre senza rinunciare a se stesse. Si torna al concetto iniziale: devo scegliere un partner che condivida con me la genitorialità, non un uomo che deleghi totalmente la genitorialità alla madre”. 

Il racconto della maternità resta però ammantato da un’aura di perfezione che sembra non permettere deroghe. E anche questo può scoraggiare. “Stiamo cercando di scardinare dalla società in cui viviamo il modello della mamma che fa biscotti, sorride e ha una piega perfetta. Quel modello continua però ad aleggiare sulle nostre vite e richiede un passo dentro di noi. Anche la più emancipata di noi se ha il figlio con la febbre e  deve andare al lavoro, si sente in colpa. Bisogna iniziare a scardinare il modello dentro di noi. I padri non si sentono in colpa se vanno in ufficio e hanno i figli che stanno male!“.

Se si guarda l’account Instagram di Julia si ha, comunque, l’impressione di un modello “perfetto”, nei colori, nelle forme e nei sorrisi. Non un capello fuori posto. E lei all’osservazione non si sottrae, anzi: “Per i primi sei mesi della mia prima figlia passavo le giornate in pigiama e solo dopo mi sono resa conto della gravità di quello che stavo vivendo. Il mio errore nella prima maternità è stato mettere l’altro davanti alle mie esigenze. Mi sono accorta della gravità e non mi sono permessa di farlo più. Voglio essere una persona serena e che si piace e questo passa anche attraverso la cura di me stessa e dell’essere in ordine. Quando si è in aereo e si depressurizza la cabina prima devi indossare la tua mascherina e poi aiutare gli altri. Nella maternità funziona così: se tu cerchi di pensare all’altro prima che a te, non riesci a fare né l’una e l’altra cosa. Io passo questa immagine di persona che accudisce prima se stessa, perché ho capito che l’altro modello non funziona. Con la terza figlia mi alzo la mattina mi faccio la doccia, mi pettino e mi trucco anche costasse qualche pianto. Lei è una bambina serena, felice, lavata e profumata ma io anche. Non sono più la mamma sfasciata che va in giro con una bambina perfetta”.

D’altra parte i bambini ci guardano e imparano molto di più da quello che facciamo che non da quello che diciamo. “C’è da riflettere anche sul modello che si dà ai propri figli: se crescono con una mamma che si sacrifica sempre, rischiano poi di perpetrare il modello. E’ importante l’idea che si ha del sacrificio: se pensiamo che ci sia virtuosità nel sacrificio di se stessi per i figli è una cavolata. Ci sono persone che si sentono forti perché si sacrificano per un bene superiore che è quello dei figli. Ma le persone non possono essere una cosa sola: una moglie che è solo una moglie, una mamma che è solo una mamma non funziona. Una persona è tante cose eppure spesso le donne non riescono a fare cose che prescindano dal loro ruolo di moglie, madre, donna in carriera. E’ la persona che siamo che tiene su tutto. Se fai crollare quella complessità, crolla tutto, anche la maternità”.

Il non sentirsi in colpa o in difetto è una delle sfide che molte donne affrontano quotidianamente. Anche le più consapevoli combattono con quel grillo parlante che ci appare sulla spalla nei momenti meno opportuni.  “Dipende anche dalla narrazione che facciamo ai bambini: se uscendo di casa diciamo loro “vado a lavorare, ma non vorrei, vorrei stare qui con te” passiamo un messaggio sbagliato sulla nostra scelta e anche rispetto al lavoro. Se diciamo “vado a lavorare perché mi piace e poi ci vediamo stasera e ci raccontiamo cosa abbiamo fatto”, allora riusciamo a comporre in modo più armonico tutti i nostri pezzi” osserva Julia. Per cambiare la narrazione che di noi e delle nostre decisioni facciamo agli altri, è però prima necessario cambiare quella che facciamo a noi stesse. Nel profondo.