Casa è rifugio, da noi come in Ucraina

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Casa è rifugio. L’ho sempre pensato. Volare è meraviglioso, volare è quasi un dovere per conoscere e crescere. Ma ci deve sempre essere un nido a cui tornare. Casa per me è il nido.

E casa è dove si trova la mia famiglia. Quella in cui viviamo. Ma anche quella in cui stiamo quando siamo via. Casa della nonna, casa di Zocca, qualsiasi albergo, pensione o appartamento in montagna o al mare. Una tenda in campeggio. Un agriturismo. Un camper. Casa è dove siamo tutti e cinque.

Casa può essere anche un rifugio per proteggersi dalle bombe perché quella che tu consideravi casa non esiste più?

Ci pensavo stanotte, all’una e mezza, dopo essere andato a pacificare Alessandro e Francesco che baruffavano perché si disturbavano nel lettone dell’albergo tra le Alpi in cui siamo. E baruffando avevano svegliato anche Anna (e me). Pensavo a noi che tutto ciò per cui possiamo lamentarci in questi giorni è il cuscino troppo morbido, la coperta troppo pesante o il fratello che ti calcia nel sonno. Arrivasse un ciclone a travolgere questa nostra vita, all’improvviso, da padre, come la gestirei?

Sono cresciuto a pane e guerra, pane e resistenza. Mia mamma aveva l’età dei miei figli durante il secondo conflitto mondiale. Quel ciclone arrivò a casa sua, quella cascina in cui vivevano in dodici figli più i genitori, e le bestie che garantivano il sostentamento. Quella cascina che aveva un nome, come tutte le case in Appennino, e per posizione o solo per ironia della sorte si chiamava “Casa Libertà”.

A Casa Libertà arrivarono “i Tedeschi”. Da Casa Libertà se ne andarono tutti e quattordici gli abitanti (senza bestie, quelle le tennero i Tedeschi. Cosa avrà raccontato nonno Carlo a mia mamma, la più piccola dei figli, per spiegare che se ne sarebbero dovuti andare? Che comunque erano assieme? No, perché non lo erano. Due sorelle erano state portate via, un fratello si era dato alla macchia per non combattere dalla parte sbagliata, un’altra sorella passerà cinque anni in ospedale per rimettersi dalle schegge di una granata.

Cosa si dice a un bambino quando la guerra arriva a casa tua? Le favole, certo. Quelle che vanno a finire bene, quelle in cui l’orco per quanto terribile e pauroso alla fine viene sconfitto, quelle in cui basta tagliare la pancia del lupo per tirar fuori la nonna e Cappuccetto rosso ancora vivi. Ma non si può vivere di favole (o sì?). Credo debbano sapere, vedere i notiziari con un adulto accanto che decripti per quanto possibile i messaggi. Sto cercando di rispondere alle loro domande, come posso. Mica ho tutte le risposte, nessuno ce le ha, e stanno iniziando a capirlo anche loro. La vita è bella, bimbi miei (a proposito di favole) ed è anche brutta. A un tempo. Difficile capirlo, lo so. Per voi esistono ancora i buoni che sono solo buoni e i cattivi che sono solo cattivi. State tranquilli, non lo capisco nemmeno io.

Quando il silenzio è tornato, nell’altra stanza, e i respiri si sono fatti di nuovo regolari (cosa c’è di più rasserenante del respiro di un bambino che dorme?) ho pensato che forse è proprio il concetto di casa quello che devo consegnare alle loro menti e ai loro cuori. Quello che deve sopravvivere a questa guerra. A tutte le guerre.

Casa siamo noi. L’unica casa di mattoni della storia. Anche in un rifugio, sotto le bombe. Poi ci sarà la vostra di case, bimbi miei. Quella che costruirete con la vostra famiglia e di cui noi genitori, se siamo stati bravi (ma bravi bravi), avremo contribuito a gettare qualche fondamenta invisibile ma solida.

Senza dimenticare che la nostra casa è protetta da una fortuna che, come tutte le fortune, non è meritata. Ci è capitato di nascere in un’epoca di pace e prosperità, in un luogo di pace e prosperità. Non posso che augurarvi che vada sempre così. Molto dipenderà da voi, dal mondo che vorrete e saprete costruire.

In fondo, discendiamo da gente di campagna. Quando arriva la gelata, il raccolto non c’è. Non resta che concentrarsi sull’anno successivo. Sperando che ci sia il lieto fine, come nelle favole.

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