Dobbiamo spiegare la guerra ai bambini?

Happy kids at elementary school

Esiste una guerra giusta? Ragionavamo su questa domanda per una dibattito che doveva tenersi in un liceo, era un compito assegnato alla classe per far riflettere sulle differenti posizioni. Mentre cercavamo esempi di guerre giuste e cercavamo di motivare le diverse posizioni, mio figlio di sei anni e mezzo si è inserito nella discussione e ha detto: “Io lo so. La guerra giusta esiste, ed è quella che si fa per gioco. Lì puoi sempre rivivere, anche quando muori“. Il dibattito poi è andato bene a scuola, ma a me le parole sulla guerra che va fatta solo per gioco hanno colpito.

Con il drammatico scoppio della guerra in Ucraina sembra di essere stati catapultati in un’epoca passata, le immagini in tv sembrano venire da tempi che non avremmo voluto rivivere e i sentimenti di angoscia sono inevitabili. Come non sentirsi angosciati, anche solo leggendo di quei genitori ucraini che nei giorni scorsi hanno cucito il gruppo sanguigno sui vestiti dei loro figli, delle case distrutte, delle famiglie in fuga?

E come spiegare tutto questo con i bambini? Come e cosa spiegare a loro che la guerra – per fortuna – la conoscono solo se fatta in camera loro con i soldatini o tra di loro in cortile?

Come per ogni evento drammatico ed emotivamente sconvolgente, dobbiamo fare i conti col nostro sentire, prima di tutto. Prima di spiegare, comunicare, dire o mostrare immagini, dobbiamo essere consapevoli di quale messaggio vogliamo dare e del perché vogliamo darlo, di come stiamo noi in quel momento e di chi abbiamo di fronte. Partendo da dove stiamo, da quanto siamo direttamente o indirettamente coinvolti, possiamo decidere con lucidità qual è il messaggio che vogliamo trasmettere. Non ha senso trasmettere la nostra angoscia, la nostra preoccupazione: di questo i bambini e le bambine non hanno bisogno. Veniamo da due anni difficili, traumatici, per loro e per noi. Hanno respirato ansia, preoccupazione e angoscia più del dovuto, come noi, teniamone conto.

Con i più piccoli

Per questo, decidere se e come, proprio ora che ci sembrava di tornare a respirare, possiamo parlare loro della guerra è un tema delicato. Il primo elemento da tenere presente è senza dubbio l’età: i bambini piccoli, in età prescolare, vedono tutto e ascoltano tutto,  sono “spugne” emotive e assorbono situazioni, sensazioni e stati d’animo, con una conoscenza quindi profonda e competente del contesto che li circonda. Con loro non ha alcun senso dilungarsi in spiegazioni tecniche o dettagliate, introdurre un tema che vivono come gioco ed è bene che vivano come tale.

Se di guerra sentono parlare in casa, se fanno domande, allora va data una spiegazione adeguata alla loro età, ma niente di più, magari aiutandosi con una favola, un racconto, un libro adatto a loro. Cerchiamo di capire da loro cosa hanno assorbito, se qualcosa hanno visto o sentito della guerra, e nel caso aiutiamoli ad esprimere le loro emozioni e ad affrontare le paure che possono nascere. Certo, è buona regola evitare che siano esposti a immagini drammatiche che possono essere fonte di angoscia e di difficile elaborazione o parlare davanti a loro di dettagli angoscianti e preoccupanti.

Alla scuola primaria

Andando avanti con l’età e arrivando all’età scolare cambiano man mano anche le capacità di ragionamento e aumentano le conoscenze. Verso i 7-8 anni si possono dare spiegazioni un po’ più articolate, evitiamo le bugie o le censure assolute, ma evitiamo al tempo stesso di “adultizzare” i bambini troppo presto: la regola aurea anche in questo caso è di tenere conto del bambino o della bambina che abbiamo davanti, considerando cosa può elaborare e cosa ha senso spiegare. A questa età si può per esempio dare qualche elemento in più che rimandi alle motivazioni alla base della guerra e se le domande arrivano da loro dobbiamo essere preparati.

Certo, è difficile superare l’istinto di proteggere a tutti i costi i più piccoli dalla cattiveria e dal male, ma in situazioni come lo scoppio di una guerra questo contatto diventa inevitabile, seppur indiretto, da una certa età in poi (torno a dirlo). E forse questo è anche un bene. Dagli 8-10 anni si può iniziare a spiegare che esistono le ingiustizie, che esistono delle persone che soffrono anche se non ne hanno colpa, che la guerra ha delle motivazioni che troppo spesso appaiono lontane dalla vita delle persone normali. E’ un modo questo per iniziare a trasmettere anche i valori di giustizia, di pace e di solidarietà.

Parlare dei bambini che vanno difesi, delle organizzazioni umanitarie e delle associazioni che si mobilitano a sostegno di chi è in difficoltà, del fatto che le soluzioni pacifiche vanno sempre ricercate, che sì, esiste il male, così come esiste il bene che cerca di farsi spazio. Raccontiamo la guerra, ma raccontiamo anche la speranza. Anche in questa fascia di età è importante che le immagini e le informazioni dei media siano filtrate adeguatamente dagli adulti: non ha senso esporre i bambini a immagini troppo violente di distruzione e di terrore, ricordiamoci che il messaggio funziona se lo adeguiamo a chi lo riceve.

Con gli adolescenti

Con i più grandi, preadolescenti e adolescenti, il discorso diventa differente: a questa età l’empatia va nutrita e in una fase in cui la ricerca di se stessi e della propria identità diventa centrale è molto importante aiutare la comprensione di un mondo esterno che ancora non si capisce e da cui non ci si sente capiti. La lettura di notizie condivise e spiegate può essere un buon mezzo di dialogo, anche in questo caso per stimolare la riflessione su ciò che è giusto e cosa no, cosa si potrebbe o non potrebbe fare.

Diamo loro una misura di ciò che accade, raccontiamo e consigliamo fonti accreditate: una situazione come questa è importante anche per capire il ruolo fondamentale dell’informazione e i grossi rischi delle fake news. Diamo i numeri, per esempio quelli dei bambini in Ucraina: sono 7,5 milioni, dice Save the children, sono in una condizione di grave pericolo e le organizzazioni internazionali si stanno attivando, spieghiamo quali sono e cosa fanno. Stimolare i ragazzi e le ragazze a un coinvolgimento significa far loro comprendere quale sarò il loro ruolo in questa società, quali possono essere le azioni da mettere in pratica. E in un dialogo che deve essere scambio, ascoltiamoli e non cerchiamo solo di dare informazioni, perché la loro visione potrebbe anche sorprenderci.

Promemoria

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno, né di notte,
né per mare, né per terra:
per esempio, la guerra.

(Gianni Rodari)

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  • Sabrina Capasso |

    Io sono dell’idea che bisogna cercare di proteggere il più possibile i bambini dall’esposizione massiccia alle news sulla guerra e rassicurarli che presto finirà. Inoltre proprio come dite anche voi, non ha senso trasmetterli anche l’angoscia della guerra, soprattutto dopo averli visti affrontare la pandemia.
    Poi quando verrà il momento in cui bisogna spiegare che cos’è la guerra, si dovrà parlare con calma filtrando il racconto con cautela ed intelligenza e soprattutto bisogna adeguarlo all’età. Per esempio ci sono alcune età in cui a causa dello sviluppo neuro-cognitivo del bambino, il racconto va del tutto censurato: è il caso della prima infanzia, cioè fino agli 8 anni. Solo successivamente si può iniziare a parlarne, ma come dicevo prima, se fanno domande precise, bisogna rispondere con tranquillità e senza entrare nei particolari, restando sul vago e cercando di evitare di far vedere loro scene crude dei tg o dei reportage. Questo perché la guerra potrebbe provocare nei bambini paura e angoscia incontrollata e minare la loro sana crescita evolutiva.

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