In Italia il 43% delle donne è inattiva, cioè non lavorano e non sono in cerca di occupazione. Una percentuale impressionante che non lascia neanche spazio a cambiamenti futuri di rilievo, perché recuperare chi ha smesso di cercare un lavoro è molto complesso. Il rapporto di Randstad Research lancia un allarme sulle gravi conseguenze e sulle possibili misure correttive, che potrebbero essere messe in atto da subito.
UNA DONNA SU DUE NON LAVORA E NON CERCA LAVORO
“La partecipazione al mercato del lavoro non è solo un tema di indipendenza economica – fondamentale – per le donne. Ma è anche un tema di democrazia, di rappresentatività politica e sociale”. Le parole di Elsa Fornero, economista e professoressa all’università di Torino ospite alla presentazione del Rapporto “Le isole delle donne inattive” di Randstad Research sintetizzano bene il problema del nostro Paese. In Italia quasi una donna su due (43%) è inattiva tra i 30 e i 69 anni, una percentuale decisamente più alta rispetto alla media europea del 32% e doppia rispetto a Germania (24%), per non parlare della Svezia (19%).
Che oltre 7 milioni di donne non lavorino né siano in cerca di occupazione, e siano quindi escluse dalla vita socio-economica, è un danno enorme per il Paese: vuol dire che sta rinunciando ad un terzo della sua forza lavoro, se è vero che il totale degli occupati è di poco più di 20 milioni di persone. Un capitale umano peraltro molto qualificato, perché i dati ci dicono che oggi il 60% dei laureati sono donne.
UN DANNO PER IL PAESE, MA ANCHE PER LE DONNE
Ma è un danno enorme per le stesse donne, che troppo spesso sono obbligate a questa scelta involontaria, e senza ritorno. “La maternità comporta forti conseguenze sulla scelta di rimanere o uscire dal lavoro – si legge nel rapporto – ma l’inattività di moltissime donne italiane si prolunga ben oltre il periodo in cui scelgono di concentrarsi sulla famiglia, per l’assenza di supporti alternativi durante la carriera, con poche possibilità di rientro. Per le donne italiane è difficile partecipare al mercato del lavoro, ma ancora più difficile rientrare dopo uno stop”.
Il fenomeno apparentemente è immutabile, se si considera che a livello aggregato il tasso di attività è rimasto fermo dal 1990 ad oggi, che colpisce soprattutto il Sud e le isole, dove più di una donna su due (il 58%) è inattiva, mentre al Nord tre su dieci. “Questo fenomeno riflette – ha commentato ancora Elsa Fornero – il famigliarismo discriminatorio proprio della nostra società: non c’è ancora rispetto della donna in quanto persona e del suo diritto all’autonomia e della libera scelta su come impostare la propria vita. Non solo in termini professionali e famigliari, ma anche economici”.
LE CONSEGUENZE SI PAGANO ANCHE CON LA PENSIONE
Nella fascia di età 30-69 anni le donne inattive sono in stragrande maggioranza casalinghe a tempo pieno (4,5 milioni), per scelta o “obbligate”, come conseguenza di scoraggiamento per le barriere all’ingresso e al reingresso nel mercato del lavoro. Ma il problema riguarda anche il “dopo”, le pensionate (2,5 milioni, tra pensioni di anzianità, sociali e di invalidità), perché le donne hanno percorsi professionali più discontinui, con inquadramenti più precari e retribuzioni inferiori e questo incide poi in maniera significativa sul trattamento pensionistico.
“La fragilità del nostro capitale sociale in termini di parità di genere si riflette nel mancato utilizzo del potenziale femminile per una società più produttiva e integrata – spiega Daniele Fano, coordinatore del comitato scientifico Randstad Research – Per favorire la partecipazione al lavoro delle troppe donne inattive, l’Italia deve investire nella creazione di asili nido e rafforzare congedi parentali, puntare sulla formazione continua e politiche attive che sviluppino il capitale sociale delle donne, agire sulla parità salariale per rendere il lavoro femminile più attrattivo e, insieme, insegnare il ‘rispetto di genere’ per ridurre gli stereotipi nelle generazioni future”.
LE POSSIBILI SOLUZIONI
In un Paese in cui la spesa pubblica in asili nido è solo lo 0,08% del Pil, tra le più basse d’Europa, l’investimento da 4,6 miliardi di euro previsto dal PNRR per aumentare di quasi 265 mila posti i servizi della prima infanzia va nella giusta direzione. Ma – sottolinea il rapporto – per completare lo sforzo, servirebbero congedi parentali che incentivino una maggior redistribuzione dei carichi di cura tra i genitori e un sistema fiscale che non penalizzi il lavoro del secondo lavoratore della famiglia.
E bisognerebbe anche investire nella formazione, per abbattere gli stereotipi di genere che portano ancora poche ragazze a studiare le materie STEM e a prediligere la formazione accademica all’esperienza lavorativa, tutti fattori che possono contribuire all’occupabilità. E anche al divario salariale, che è quasi del 20% nel settore privato e che si stratifica nel tempo a causa di contratti instabili, più part-time forzati, meno carriera e pensione anticipata, con meno contributi pagati. “Occupazione, fertilità e welfare – conclude il rapporto – sono grandezze che sembrano manifestare un collegamento, crescono o decrescono in gruppo. Per migliorare la situazione italiana, è necessario agire su questi fronti in maniera congiunta”.
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