Perché affidiamo il nostro cuore alle chat?

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Quanto pesano i “messaggini”?

Questa domanda fa pensare alla filastrocca di Rodari sul peso delle lacrime:

“Quanto pesa una lacrima?
La lacrima di un bambino capriccioso
pesa meno del vento,
quella di un bambino affamato
pesa più di tutta la terra.”

Anche i messaggi che mandiamo ogni giorno sulle varie app hanno pesi diversi a seconda del contenuto. Intanto qualche numero: parliamo per esempio di Whatasapp, l’app di instant messaging più utilizzata al mondo, che appartiene a Facebook e che conta oltre due miliardi di utenti. Ogni giorno su questo canale viaggiano 100 miliardi di messaggi: circa 70 milioni di messaggi ogni minuto. Riusciamo a immaginare un milione di pensieri muoversi ogni secondo su questo canale onnipresente, sempre acceso?

A livello di impatto ambientale, questi messaggi hanno un peso poco noto ma di rilievo: circa 4 grammi di CO2 se è solo testo, arrivando a 50 grammi se si manda un’immagine (consideriamo che una lampadina a basso consumo emette 7 grammi di CO2 all’ora). Inquinano, dunque, ma non solo. Per la difficoltà che abbiamo nel misurarlo, tralasciamo troppo spesso di considerare l’inquinamento cognitivo ed emotivo che una massa di informazioni in continuo movimento può generare. Insieme al costo energetico consumato dalla trasmissione di questi dati, andrebbe infatti messo nel conto anche il costo umano del loro consumo.

C’è un costo in termini di tempo, e già solo questo è sottostimato. Il tempo allocato a leggere, comprendere, digerire, reagire, immaginare, produrre e inviare messaggi è… moltissimo. Possiamo misurarlo in minuti: 28 minuti in media al giorno, che fa 3 ore e mezzo a settimana, 14 ore al mese, 7 giorni all’anno. Ma una misura più appropriata dovrebbe guardare oltre al tempo speso nell’app, arrivando a considerare il tempo perso a causa della facilità di usare questo tipo di canale. Sembra un paradosso, ma è così: usare whatsapp è “troppo facile”, e questo aumenta esponenzialmente il suo potenziale inquinante.

Usiamo whatsapp invece di chiamare al telefono, lo usiamo invece della posta (tradizionale ed elettronica), lo usiamo al posto degli sms (meno gradevoli, e quindi che incentivano una maggiore sintesi), lo usiamo senza pianificare, senza doverci spostare, senza dover, ahimè, a volte nemmeno pensare.

Ecco perché dovremmo parlare anche di costo cognitivo ed emotivo dell’utilizzo di questo canale. Il costo cognitivo riguarda il costo di processamento delle informazioni. Le parole e le immagini che riceviamo sono come una pioggia di dati che deve raggiungere il processore nella nostra testa, esserne elaborato e diventare significato. Poi avviene una reazione: altra pioggia di dati che prende forma nella nostra mente, viene prodotta e tradotta in messaggini. Sparati spesso su interi gruppi di persone per una logica distorta di inclusione che, per non sbagliare, ci illude che escludere qualcuno dai nostri pensieri sarebbe ingiusto. Avanti e indietro: una massa di informazioni di media qualità e medio livello di interesse occupa i nostri neuroni, impedendogli di fare altro.

E’ possibile però che il costo più pesante di questo strumento, e anche il meno noto, sia quello emotivo. Chi prima di conoscere i messaggi istantanei è passato per i telegrammi e gli sms sa che i secondi sono stati vissuti all’inizio come una democratizzazione dei primi. Cose urgenti da comunicare, sintetiche (numero massimo dei caratteri: 160), per cui si era disposti a spendere 200 lire (10 centesimi di euro per ogni messaggio). Istruzioni, domande, controlli veloci: se c’era qualcosa di veramente importante da dire si usava altro. E usare altro voleva dire aspettare: il momento giusto, l’incontro, oppure che la linea telefonica fosse libera, che una lettera arrivasse a destinazione. E aspettare voleva dire avere tempo per pensare, cambiare idea, raffinare un pensiero, risultando in una maggiore cura delle proprie e altrui emozioni.

Adesso noi via chat mandiamo di tutto. Non di rado interi vagoni di sentimenti in formato istantaneo. Così come li sentiamo al momento, perché appare giusto e autentico. Escono da noi – alleggerendoci – e corrono ad appesantire il destinatario, che a sua volta si sentirà in dovere di rispondere con qualcosa di pari peso. Quasi una forma di rispetto: essere pesanti con chi è pesante, dover sempre chiudere il cerchio con una reazione, non lasciar andare mai.

“Il mezzo è il messaggio” ha detto il sociologo McLuhan, e nel caso dei messaggi istantanei si può proprio dire che il mezzo perda ogni neutralità: la loro facilità d’uso e costante disponibilità, l’apparente mancanza di un costo di invio, danno ai contenuti che viaggiano su queste app una leggerezza apparente, facendoci spesso perdere di vista il peso delle parole. Anche via instant messaging, come nella filastrocca di Rodari, ci sono pesi e pesi. Le parole ci stan dentro tutte, ma alcune producono un inquinamento emotivo di cui non siamo consapevoli e che, come un invisibile rumore di fondo, accompagna le nostre vite senza averci chiesto il permesso.

Da poco ho scoperto una nuova funzionalità, che si può attivare sul singolo contatto: che i messaggi si cancellino tutti, automaticamente, dopo una settimana. Per non portare il peso del tempo, oltre al resto? Per legittimare il fatto che i sentimenti cambiano e che quindi non è vero che “scripta manent”? Oppure perché siamo utenti bulimici di ciò che ci fa esprimere il nostro bisogno di relazione e di essere visti, e solo la tecnologia può salvarci da ciò a cui, prima di tutto, ci condanna?

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