Nuovi reati e pene più severe, accelerazione dei procedimenti per denunce e indagini, maggiore urgenza e attenzione sui casi di violenza contro donne e minori. Ma ancora troppa discrezionalità e mancanza di formazione, con il rischio che tutto resti sulla carta e si assista a una rivittimizzazione. A quasi due anni dall’entrata in vigore, sul Codice rosso, la legge 69 del 19 luglio 2019 a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, restano luci e ombre.
“Il Codice rosso ha reso i reati contro le donne alla pari di quelli contro la criminalità organizzata e ha imposto che le donne vittime di violenze vengano sentite immediatamente”, ci spiega la giudice Paola Di Nicola. “E’ stata una vera strigliata alla magistratura e alle forze dell’ordine. Anche prima le vittime dovevano essere sentite ma la violenza e la pericolosità venivano troppo spesso ridimensionate e le denunce talvolta lasciate nel cassetto”, continua la giudice.
La relazione del Ministero della Giustizia mostra che tra l’1 agosto 2019 e il 31 luglio 2020 – compreso quindi il primo periodo di lockdown per la pandemia – è aumentata dell’11% la percentuale dei procedimenti iscritti per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, con un incremento delle denunce da gennaio a maggio 2020, mentre sono diminuiti i reati di violenza sessuale e stalking.
Secondo Maria Monteleone, magistrata che a Roma ha coordinato il pool di pm specializzati nella violenza di genere e domestica e nei reati contro la libertà sessuale, la legge contiene modifiche al codice penale e di procedura “molto importanti, come l’introduzione di nuove fattispecie di reati come la diffusione illecita di immagini e video sessualmente esplicite – il revenge porn – , la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, la costrizione o induzione al matrimonio. Oltre all’aumento delle sanzioni per la violenza domestica, sessuale e stalking, la procedibilità di ufficio per gli atti sessuali con minorenne, lo scambio di atti tra giudice civile e penale e minorile, le disposizioni che rendono urgenti tutte le attività di indagine nella materia”. Molti però i nodi ancora aperti, tra questi l’obbligo per il pm di procedere all’ascolto della vittima entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato.
L’obbligo dei tre giorni “è una norma altamente critica, in aperta violazione della Convenzione di Istanbul, che limita l’ascolto delle vittime di violenza di genere e domestica, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria conseguente al loro ascolto ripetuto”, sottolinea Monteleone. “La scelta dei tempi e dei modi spetta alla polizia giudiziaria e ai magistrati che devono essere specializzati – continua la magistrata – in tanti casi è assolutamente inopportuno risentire la vittima nel giro di due o tre giorni dalla presentazione della denuncia o querela. Molte di esse si rifiutano di tornare e l’adempimento di questo obbligo costituisce un inutile aggravio formale di atti. Per questo diversi uffici giudiziari hanno dovuto dare una interpretazione che deroga l’applicazione letterale di questa norma”. Emblematico il caso di una donna picchiata dal marito, sentita subito dopo l’arrivo in ospedale. La donna si trovava in condizioni psicologiche così compromesse da tentare il suicidio. In quel caso risentirla dopo pochi giorni avrebbe aggravato le sue già precarie condizioni, racconta Monteleone.
“Velocizzare l’assunzione delle informazione da parte della persona offesa può esporre la donna a nuove vittimizzazione e ulteriore violenza”, conferma Ilaria Boiano, avvocata di Differenza Donna, associazione che quotidianamente supporta le donne in fuga dalla violenza. “Tra i casi che seguiamo vi è quello di una donna che dopo una denuncia molto articolata di maltrattamenti e atti persecutori è stata risentita più volte – racconta l’avvocata – I funzionari delegati a risentirla non avevano però la formazione per integrare l’atto di denuncia, così ha dovuto ripercorrere tutti i fatti. A causa della sofferenza e dello stress, la donna, malata di tumore, si è sentita male”. Ma si verificano anche situazioni opposte. “Tra le nostre assistite c’è una signora che ha denunciato sommariamente – e in quel caso è stato utile risentirla -, ha approfondito tutti i fatti molto gravi avvenuti alla presenza del bimbo di due anni. Sono passati due mesi dalla prima denuncia e non è successo nulla, siamo ancora in attesa di una misura cautelare. Lei è ospite dei genitori, l’uomo reclama di vedere il bambino”.
Particolarmente critici i casi di donne immigrate. “Una donna peruviana durante il lockdown si è presentata al pronto soccorso per i maltrattamenti subiti, ha denunciato e il giorno successivo la questura l’ha convocata e portata all’ufficio immigrazione per procedere all’espulsione. Siamo intervenute immediatamente, chiedendo la revoca del provvedimento e in due giorni abbiamo ricevuto il nullaosta per il permesso di soggiorno. Sono fatti che succedono spesso: su un campione di 50 donne straniere da noi seguite tra il 2019 e inizio 2020, tutte hanno ricevuto un provvedimento di espulsione a seguito di denuncia, richiesta di intervento da parte delle forze dell’ordine o controlli”.
“Manca un’adesione autentica delle autorità alla Convenzione di Istanbul, perché alle donne ancora non si crede”, continua Boiano. “Vi è ancora una grave deficienza nella conoscenza delle norme introdotte che riguarda non solo la legge 69 del 2019 ma anche la 119 del 2013. Malgrado i meccanismi che hanno cercato di velocizzare l’azione e la riposta giudiziaria vi è ancora un forte ritardo nell’adozione di misure di protezione. Abbiamo riscontrato una tempestività nella risposta nella fase delle indagini, ma il prosieguo rimane drammatico. Dalle indagini al dibattimento ci sono tempi troppo lunghi e non adeguati”.
Un altro nodo resta, ancora, quello della formazione: “L’accelerazione dei procedimenti è positivo in senso assoluto e si tocca con mano quasi dappertutto: la zona grigia tra l’iscrizione della notizia di reato e la presa in carico da parte dei pm è stata accorciata tantissimo, ma c’è anche il rovescio della medaglia: se la donna non è pronta, non è stata seguita e sostenuta in un percorso, rischia di tornare indietro, ritrattare o ritirare la denuncia”, dichiara Elena Biaggioni, avvocata penalista e componente della rete D.i.Re – Donne in rete contro la violenza.
“Sono bilanciamenti estremamente difficili, bisognerebbe seguire caso per caso. Ci sono procure che hanno incrementato i casi e l’attenzione e procure in cui aumentano le archiviazioni e si assiste a una generale minimizzazione. Ciò dipende moltissimo dalla sensibilità al tema, oltre che dalla organizzazione e dalla formazione”, spiega Biaggioni, sottolineando che “c’è stato anche pochissimo tempo per fare formazione dall’entrata in vigore della legge, ad agosto 2019, allo scoppio della pandemia a marzo 2020”.
La formazione è l’unico strumento per evitare la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni (forze dell’ordine, magistrati) sulle donne che denunciano violenza, aggiunge la giudice Di Nicola. Il codice rosso prevede infatti formazione obbligatoria per carabinieri, polizia e polizia penitenziaria ma non per la magistratura. “La violenza, soprattutto domestica, è molto diffusa e in continuo aumento e non siamo sempre e tutti preparati e capaci di affrontare al meglio le diverse situazioni”, sottolinea Monteleone.
Per questo “la specializzazione e la formazione di tutti gli operatori, che la legge del 2019 ha espressamente previsto anche se a costo zero, devono essere capillari e diffusi su tutto il territorio nazionale, ci troviamo difronte a una vera e propria emergenza. I femminicidi avvengono anche nei posti più lontani e sperduti, quindi il problema è che dobbiamo specializzare tutte le forze dell’ordine e tutti i magistrati sul territorio, cosa complicatissima che richiede sensibilità, strutture e mezzi adeguati. Inoltre l’emergenza sanitaria connessa al Covid ha contribuito ad aggravare le condizioni delle vittime, soprattutto minorenni e bambini e il racconto dei media spesso non si può condividere. Troppe volte i fatti sono raccontati in maniera inaccettabile, violando la dignità delle stesse vittime”.
Di fronte a tante ombre, però, non possiamo dimenticare che ci sono anche tante realtà che fanno scuola. “I reati inerenti la violenza contro le donne sono invisibili, perché avvengono tra le mura domestiche. Merito e compito del Codice rosso è farli emergere”, commenta il procuratore di Benevento, Aldo Policastro. “Questa grande attenzione, anche normativa, sul tema ha fatto sì che le vittime si sentano al centro dell’attenzione. Il messaggio è: questi reati vengono trattati con massimo scrupolo e massima urgenza. Ciò tranquillizza le vittime”, continua Policastro.
Nella procura di Benevento le donne non vengono sentite solo dal pm, ma anche dalla polizia giudiziaria su delega del magistrato, con due accortezze: l’intervento della psicologa e direttive precise sul contenuto e le modalità di ascolto per una verbalizzazione completa. “Così diminuisce il rischio di una ripetuta escussione della parte offesa, della vittima – afferma il procuratore – Abbiamo uno spazio di ascolto dove le donne sono sempre affiancate dalle operatrici dei centri e dalla psicologa, formate e con grossa esperienza”. Un esempio virtuoso che dovrebbe essere replicato su tutto il territorio.
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Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.
NEVER AGAIN è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.