La sua prima raccolta di poesie, “album”, è fresca di pubblicazione per Nottetempo, ma Elisa Donzelli vive e respira poesia praticamente dall’infanzia. La raccolta infatti abbraccia un racconto di vent’anni, come un memoriale in versi, che nell’andirivieni tra le età di una vita traccia le immagini di una generazione in equilibrio tra disillusioni e identità. Nata a Torino nel 1979, da piú di trent’anni vive a Roma, ed è autrice e curatrice di saggi e opere letterarie. Dal 2018 ricopre la cattedra di Letteratura italiana contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È figlia di Carmine Donzelli, che dopo aver lavorato accanto a Giulio Einaudi fondò nel 1993 la Donzelli Editore, con cui oggi Elisa traduce e dirige la collana di poesia, 66 titoli all’attivo, italiani e stranieri. Tra le sue varie anime, quella della poeta è arrivata dunque per ultima, in termini temporali, anche se forse era presente nel sostrato già da tempi non sospetti.
“A nove anni” racconta, “quando ci siamo trasferiti da Torino a Roma, ho scritto un gruzzolo di poesie molto malinconiche su un taccuino da disegno. Poi non ho mai più scritto nulla, se non forse un paio di testi intorno ai diciotto anni (testi che ho rielaborato in album, in altra veste). Dopo la maturità il mio Bildungsroman si è attestato sulla lettura dei libri degli altri. Negli anni è cresciuta la studentessa, la lettrice, la studiosa, la ricercatrice, la direttrice di collana. Molti mi considerano per natura editrice, ma è ben altra cosa essere editori, io non ho scelto questo mestiere né ho studiato per farlo. Poi è nata l’insegnante. Il mestiere che considero più mio e che ho più a lungo desiderato. Non avrei mai pensato di diventare poetessa, o poeta come si preferisce dire, ma oggi mi accorgo che la poesia ha da sempre strutturato e via via pervaso ogni sfera della mia vita. La poesia osservata, prima ancora che letta, ha contribuito a costituire la mia identità di genere ma anche la mia coscienza politica e civile. Per questo dei miei diversi tratti e ruoli professionali rivendico come elemento comune, e trait d’union, l’essere declinata al femminile”.
Come si integra e rapporta il femminile al maschile nella poesia? Qual è l’apporto femmineo alla poesia?
L’intelligenza femminile si fonda su criteri diversi da quelli maschili. Sin da piccole le bambine cercano il dettaglio, orientano lo sguardo sul punctum, quello che Roland Barthes sosteneva essere l’elemento vivo della fotografia. Se poi a questa attitudine di sintesi affiancano lo studio e l’esercizio logico-cognitivo sono in grado di aprire varchi. È questa la ragione per la quale quando leggo libri scritti da donne, da donne che non vogliono imitare comportamenti maschili, questi libri assumono per me una marcata specificità letteraria. Ma le donne che scrivono con una postura femminile sono purtroppo una minoranza. Un po’ perché le donne non hanno ancora conquistato la sicurezza di poter essere – senza aggressioni esterne, permessi, protezioni – ciò che nella forma e nella sostanza sono. Non vorrei essere fraintesa, la bellezza e la fluidità sono da entrambe le parti.
Degli uomini mi affascina e intriga l’istinto alla perlustrazione, una visione aerea e globale del mondo. Al liceo notavo come studiavano i miei compagni, senza necessità di evidenziare: l’astrazione per loro non era un allenamento. Le ragazze, le mie allieve per esempio, hanno maggior bisogno di marcare i libri, di scrivere ciò che spiego. Osservandole nei gesti avverto che hanno un innato talento mimetico, di tratteggio. Maggiore potenza di creazione, dunque di scrittura. È questa la loro peculiarità: rimica, ritmica, non ho difficoltà a dire ‘emotiva’. Dal particolare all’universale”.
La poesia risente della diversità dello sguardo di genere sul mondo?
Nella vulgata si dice: ‘L’arte non ha sesso’. Non lo ha e non dovrebbe averlo in termini di diritti di libertà di espressione e di opportunità. Ma sono convinta che la bellezza della diversità di genere non vada in alcun modo annullata. Sono antica e partigiana in questo, l’opera ha una sua prevalenza di genere che non preclude la libertà delle scelte sessuali. Non dovremo mai smettere di ricordare che c’è una parte innata di noi – maschile e femminile, a seconda del caso – che abbiamo ricevuto, e che per natura ‘non abbiamo scelto’. Il genere è anche una conquista.
E nel mondo editoriale quanto spazio hanno le “donne di poesia”?
Sfatiamo un luogo comune. L’editoria indipendente e semi-indipendente mi sembra declinata più al femminile che al maschile. Nella Donzelli editore, sin da ragazzina, avevo 15 anni quando è nata, sono sempre stata abituata a vedere lavorare forze femminili, con grande qualità ed impegno di crescita professionale anche in ruoli manageriali. E si tratta di una realtà nata all’inizio degli anni Novanta. Ciò non toglie che il mondo non poi così piccolo della poesia abbia le sue regole, i suoi lessici e criteri interni, e non funzioni diversamente da altri ambienti se parliamo di rappresentanza femminile. Il problema italiano, in verità non solo italiano, è sempre lo stesso e non dico nulla di nuovo: la leadership. All’università, nel mondo della letteratura e della cultura, un po’ meno in editoria, al vertice non ci sono tante donne. Nello specifico ad esempio i premi di poesia hanno giurie maschili o con un numero ristretto di giurate donne, rarissime le giovani.
Qualcosa sta cambiando nelle ultime scelte ma siamo lontani dal considerarla un’abitudine. Meno evidente, ma con conseguenze più radicate, la mancanza quasi totale di giornaliste che recensiscono libri di poesia su quotidiani nazionali. Potrei fare soltanto una manciata di nomi. La terza pagina con ogni evidenza è ancora per tradizione di esclusiva maschile. Cosa significa? Che anche le menti più acute – nel sempre più piccolo spazio che resta sui giornali alla poesia, restituiscono al pubblico (alle molte lettrici) i libri solo da una certa prospettiva. Sfugge sempre il rovescio. Alle donne, questo sì, viene lasciato spazio sui settimanali o mensili di costume e attualità con tanto di servizi fotografici di trittici o quartetti di poetesse. Di recente ne ho visti alcuni, anche graziosi, ma mi hanno intristita. Avete mai visto un servizio fotografico di poeti maschi?
Come descriverebbe il suo essere “donna d’editoria”, poeta ed editrice? Pensa che abbia fatto una differenza? Se sì, quale?
Penso che nel 2021 non possiamo più concepirci con un volto solo. Questo non significa voler essere troppe cose insieme. Sino a qualche anno fa essere poeti e svolgere la propria professione istituzionale era una scelta rischiosa. Talvolta bisognava giustificarsi come se la poesia fosse un hobby. Ma sono moltissimi gli esempi nel Novecento di poeti che sono stati anche grandi editori e promotori culturali. Oggi non vedo discrasia sostanziale tra il lavoro di ricerca, altri mestieri, e quello della scrittura in proprio, mia o di altri miei colleghi. Studiando, insegnando, facendo ricerca, facendo editoria di poesia ho coltivato e sondato più a fondo molte idee confluite nelle mie poesie. Scrivendo una raccolta di versi sento più che nel passato di avere messo in azione, di aver reso militanti, anche le mie scelte professionali. Dovremmo abituarci a considerare la poesia un’azione politica. Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, per esempio, erano la poesia e le arti in genere le strade nascoste per la conquista di uno spazio di vera libertà. Ed era anche la letteratura, per quanto a un certo punto clandestina al fascismo, ad avere mosso idee di democrazia e civiltà. Idee che hanno fondato la nostra Costituzione.
Qual è quindi la funzione della poesia?
La poesia non è uno sfogo o un diletto. Non consola. La considero un’azione critica in grado di ragionare sull’evoluzione del mondo, la sua originalità consiste nel fatto che parte da un presupposto comune e privato: quello di non negare la solitudine delle nostre esistenze. Allo stesso tempo la poesia mi ha indicato l’altra parte: che è un dovere concepirci come figli di qualcosa, e non solo di qualcuno. I miei coetanei (soprattutto le mie coetanee), a prescindere dalle storie personali e dalle identità di genere, hanno faticato a conquistare spazio. Come generazione, per ragioni storiche, siamo stati abituati a non considerarci, e a non essere considerati, adulti. La colpa non è da una sola parte. Ma nella nostra come in ogni epoca, la paternità gioca di necessità una funzione poetica, ed è duplice. Da una parte bisogna studiare, è indispensabile leggere i maestri, anche quelli più lontani e diversi. E non dimenticarsi di esplorare le voci contemporanee, a prescindere dalle amicizie, inimicizie, simpatie e antipatie tra poeti. Dall’altra parte, diventare adulti vuol dire “differenziarsi” (un mio verso, nelle vesti di figlia, recita “hai amato di me la differenza”). Mio padre ha insegnato a me e alle mie sorelle a sentirci libere di scegliere e perseguire con ostinazione le nostre strade.
E quanto alla maternità? Che funzione ha nella poesia?
Penso a mia madre, una donna che non si è negata la maternità, che da giovane ha abbracciato la politica, soprattutto ha perseguito nelle città e nelle scuole l’insegnamento. È lei ad avermi mostrato con i gesti la fatica e la forza che comportava riuscire a tenere insieme tutte queste cose. Che essere lavoratrici ed essere madri sia più difficile è indiscutibile: e bisognerebbe riconoscere di più in termini di diritti alle donne con figli piccoli. Molte ex-femministe hanno ottenuto conquiste delle quali dobbiamo essere loro grate, ma molte di loro negli anni Settanta non sono diventate madri non solo per ragioni storiche, anche per volontà. È una verità scomoda che si fa finta di non vedere. La conseguenza è stata non avere compreso la difficoltà che le giovani donne della mia generazione avevano nel riconquistare spazi di cura e di sorellanza. Essere madri è prima di tutto dare forma a un desiderio di adesione. Mettere al mondo una identità autonoma e diversa da noi tramite cui fare spazio al nostro nascere e morire: alla centralità dell’incontro con gli altri. Si è poeti per sé e per gli altri se si corre il rischio di affermare che la solitudine ci riguarda e può essere condivisa.
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“Donne di editoria” è un viaggio a puntate di Alley Oop, ideato e curato da Manuela Perrone, tra le professioniste che a vario titolo lavorano nel settore dei libri: editrici, libraie, scrittrici, bibliotecarie, comunicatrici, traduttrici. Tutte responsabili, ciascuna nel proprio ambito, di disegnare un pezzo importante del nostro immaginario e della nostra cultura.
Qui la prima intervista alla libraia Samanta Romanese.
Qui la seconda intervista alla filosofa ed editrice Maura Gancitano.
Qui la terza intervista all’illustratrice Daniela Iride Murgia.
Qui la quarta intervista all’editor Flavia Fiocchi.
Qui la quinta intervista alle libraie Maria Carmela e Angelica Sciacca.
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