Facciamo meno figli, è ufficiale, lo sappiamo, ce lo dice anche l’Istat. Resta complesso capire il perché. Secondo Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istituto di statistica, sono le difficoltà economiche e sociali a frenare le famiglie, che in media desidererebbero due figli. Ai fattori di contesto vanno associate anche altre cause, perché il problema è assai più complesso di quanto la soluzione di un bonus potrebbe farci sperare. Flavia Gasperetti, nel suo saggio “Madri e no, Ragioni e percorsi di non maternità”, scrive: “Forse, ipotizzo, non dovremmo basarci solo sulle statistiche […], forse è agli studi sulla felicità che dovremmo guardare, oppure pensare alla possibilità di misurare l’immisurabile, trovare nuovi modi per prendere la temperatura emotiva del corpo sociale. Come si misura la fiducia in un domani migliore? Lo scollamento tra aspettative e realtà? E la rabbia? E la fatica?”.
Di fronte a queste domande non possiamo evitare di porci un’altra domanda, faticosa, e che sicuramente ci fa sentire tutti a disagio: e se le persone avessero smesso di fare figli perché pensano che, in fondo, non ne valga la pena? Che il bilancio costo/benefici sia troppo sfavorevole in fin dei conti per sopportarlo?
I numeri parlano chiaro: tra gennaio e maggio si sono registrate 4500 nascite in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Il presidente dell’Istat, in audizione lo scorso novembre sulla manovra economica davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato, ha dichiarato che con molta probabilità i nuovi nati nel 2021 si ridurranno a 393mila, dopo il bilancio finale del 2020 che si chiuderà a 408mila. Un minimo mai raggiunto in oltre 150 anni di unità nazionale. Quella dei 400mila nati l’anno, è una soglia simbolica sotto cui non ci aspettavamo di scendere prima del 2032, e già da tempo le proiezioni la indicavano come spauracchio nell’osservare una curva che, lenta ma inesorabile, non cessava di scendere. Ora però, a causa della pandemia, pare che quella soglia sia dietro l’angolo. Con buona pace di tutti coloro che, durante il primo lockdown, tra arcobaleni e applausi, vagheggiavano ottimisticamente di un nuovo baby boom.
È chiaro però che lo stress pandemico si sarebbe solo aggiunto a tutta un’altra serie di stress che già gravavano sullo status genitoriale prima della pandemia. Per comprendere davvero le ragioni di questa denatalità è necessario prendere in considerazione un insieme di fattori: sociologici ed economici, certo, ma anche psicologici e culturali.
Flavia Gasperetti, nel corso di un’intervista ad Alley Oop, riflette: “Una grande pressione sociale grava sui genitori in modo particolare. Specie quando sono alle prese con figli piccoli, madri e padri si sentono molto soli. La nostra idea di cosa costituisce una prestazione genitoriale adeguata non è mai stata così alta. In termini di dispendio economico, tempo materiale, opportunità che devono essere date. Un lavoro enorme in tempi di welfare sempre più parcellizzato, disgregato, incerto, e di legami comunitari che sono sempre più venuti meno. Le famiglie si sentono sempre più isolate”.
Se dunque da una parte i genitori, le famiglie, sembrano essere uniti da una narrazione comune che le fa sentire parte di qualcosa, nella realtà, percepiscono una forma di isolamento. Dall’altra parte le persone senza figli non hanno una narrativa che le accomuna e sembra che le loro scelte siano costantemente dettate da una forma di individualismo, mentre le statistiche ci raccontano di persone che stabiliscono più legami e più forti, relazioni sociali più soddisfacenti, una vita in generale più comunitaria. Sono due categorie sociali che vivono un profondo scollamento tra la realtà che esperiscono quotidianamente e la narrazione che le caratterizza.
Posto che la scelta di diventare genitori deve essere libera per tutti, tanto per le donne quanto per gli uomini, e che dovrebbero essere superati tutti insieme certi pregiudizi secondo cui sarebbe biologicamente impossibile non desiderare dei figli, va detta un’altra cosa. Il dialogo tra chi i figli li ha voluti e li ha fatti e chi invece non ne desidera e non ne farà, può insegnarci qualcosa di importante. Non sono due categorie nemiche, che stanno ai due lati di un ring con posizioni inconciliabili. Tutt’altro. Sono due interlocutori di un dialogo quanto mai necessario e urgente per ridisegnare una società più soddisfacente per tutti.
Continua Gasperetti: “La nostra dimensione pubblica e collettiva allontana la dimensione della cura, che pure ci riguarda tutti, perché tutti nasciamo inermi e lo ridiventiamo progressivamente quando invecchiamo, quando ci ammaliamo. Relegare la cura all’interno della famiglia, fondamentalmente scaricarla quindi sulle donne, è insostenibile. Si può continuare a caricare questo mito dell’istinto materno, ma è deresponsabilizzante. Continuando a coltivare questa visione non ci occuperemo mai di rendere il lavoro di cura sostenibile, qualcosa che può essere fatto senza rinunciare a tutti gli altri aspetti della propria vita. I tempi sono maturi per pensare a un modo diverso di essere famiglia, di essere comunità”.
A chi spetta la responsabilità della crescita di un nuovo cittadino: alla famiglia, alla società, o a entrambe? Possiamo rispondere a questa domanda aumentando la portata di assegni, bonus e servizi. Ma l’aiuto pubblico da solo non è la risposta. Come questi tempi ci stanno insegnando prepotentemente, la risposta è molto più complessa. Sta nelle reti territoriali, nelle maglie culturali, nella coesione delle comunità. La risposta va cercata. Non si può pensare che quella di non fare figli sia semplicemente una scelta egoistica e individuale.16
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Per ascoltare l’intervista integrale a Flavia Gasperetti: