La tempesta Codiv-19 ci ha buttato in un territorio inesplorato, da ridefinire però attraverso domande solo parzialmente nuove. E se la crisi può rimandare indietro di anni l’orologio delle conquiste sociali, è anche innegabile che, proprio per questo, temi come la parità tra i sessi sono tornati in discussione in modo diffuso in tutto il mondo.
Qualcuno vede il bicchiere mezzo pieno. È il caso del recente sondaggio Catalyst, no-profit americana specializzata in temi di equilibrio di genere nel mondo del lavoro, sull’impatto della pandemia per dipendenti e manager statunitensi. 5 intervistati su 10 si aspettano migliori prospettive economiche nei prossimi 5 anni e ben 7 su 10 ritengono che la crisi attuale darà una accelerata alla parità. Offrirà inoltre, si legge, l’occasione alle aziende di prendere posizioni decise in materia di inclusione ed equità. All’altro estremo però, non mancano visioni più cupe, come quelle descritte dai numeri preoccupanti dell’ILO (Istituto per il Lavoro) sui dati dell’uscita dal lavoro delle donne.
Non esiste una “one size fits all” per parlare di quello che sta succedendo a livello globale. È chiaro però che la crisi si è rivelata decisamente più pesante per le lavoratrici. Prevalgono numericamente, infatti, in occupazioni in stallo causa pandemia (turismo, servizi alla persona…). Hanno beneficiato dello smart-working ma sono anche state maggiormente caricate delle incombenze familiari, in combinazione, per esempio, con la chiusura delle strutture di cura. Più dei loro compagni, colleghi, mariti, hanno dovuto invocare la flessibilità lavorativa, pagando così un indebolimento delle loro posizioni, tra l’altro spesso già di partenza inferiori e non compatibili con il lavoro da casa.
A prescindere dal grado di ottimismo o catastrofismo, le visioni sull’inclusione convergono nel segnalare il ruolo delle donne nella ripartenza e, di conseguenza, si moltiplicano nel mondo le discussioni a riguardo. Se n’è parlato, per esempio, in estremo oriente durante il 36esimo summit dei paesi ASEAN (10 nazioni del Sud Est Asiatico): per la prima volta una sessione speciale si è dedicata all’ “Empowering Women in the Digital Age”. È rimbalzata poi un po’ ovunque la notizia di come le nazioni a guida femminile, dalla Nuova Zelanda alla Germania a Taiwan, hanno dimostrato di stare meglio affrontando la pandemia. Molti sono i racconti di modi creativi di trovare un equilibrio tra i ruoli, come quella di una freelancer americana che ha stipulato un contratto con il proprio compagno per fondare su basi solide la condivisione delle necessità famigliari. E non mancano le buone pratiche introdotte da quelle aziende che si muovono anche oggi verso la promozione della parità ai livelli decisionali, spinte dalla convinzione che la diversity è un vantaggio.
Non c’è da essere felici e non c’è da disperare: non si deve abbassare la guardia perché la disparità di genere sta tornando a serpeggiare e le donne continuano a faticare nel creare e gestire l’equilibrio vita-lavoro. Stanno però acquisendo maggiore voce e sono sempre più chiaramente un motore di ripresa da non sottovalutare – speriamo favorite anche dalla importante presenza femminile in posizioni cruciali, come le tre donne, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e Angela Merkel, oggi e fino alla fine 2020, a capo delle maggiori istituzioni europee.