“L’imprenditoria femminile avvantaggia tutta la comunità” proclama con autentico fervore Sarah Breedlove – nota come Madame – C.J Walker – dinanzi a Booker T. Washington e alla platea National Negro Business League meeting a Chicago nel 1912 che vuole convincere e portare dalla sua parte. Sta cercando finanziatori per il suo ambizioso progetto imprenditoriale. Vuole ampliare il suo business, costruire una fabbrica di prodotti per capelli.
Che cosa c’è di particolare nella scena appena descritta? Forse niente, se non fosse che stiamo parlando della prima imprenditrice afroamericana a diventare milionaria nei primi decenni del Novecento, in un’America affrancata dalla schiavitù, ma non dalla segregazione razziale che per le donne “colored” significava non avere spazio, non trovare il proprio posto nel mondo, significava sacrificare sogni, desideri e ambizioni perché prima di tutto a emanciparsi doveva essere l’uomo, come Washington urla poco dopo a Madame, visibilmente adirato da tale insubordinazione.
Questa è una delle scene chiave di “Self-Made”, la serie tv Netflix, interpretata da Octavia Spencer, che racconta la storia straordinaria di Madame CJ Walker, una storia di emancipazione ed empowerment femminile, ma soprattutto di una donna che non si fermò di fronte a nessun ostacolo. Nemici interni ed esterni. Avversità previste accanto a quelle imprevedibili. Molti sono gli stessi di oggi, cento anni dopo. Eppure quella frase sull’imprenditoria femminile fece breccia, non nella fredda assemblea, ma nel cuore delle mogli degli astanti che decisero di donarle alcune somme di denaro per poter partire proprio perché colpite da quelle parole, fiduciose in quel seme di speranza gettato da Madame CJ Walker.
Quella frase mi ritorna in mente perché è di una verità spiazzante. Basta dare un’occhiata ad alcuni dati. L’Osservatorio per l’Imprenditorialità femminile di Unioncamere e Infocamere, registra un milione e 340mila imprese femminili, 3 milioni di occupati e un forte apporto al sistema dell’istruzione e del welfare di natura privata, così importante per agevolare la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro delle famiglie. I dati al 30 settembre scorso rivelano che nel settore dell’istruzione le 9.600 imprese femminili rappresentano oltre il 30% del totale, con un aumento di circa 1.500 unità rispetto al settembre del 2014.
Nel campo sanitario e dell’assistenza sociale, le 17mila imprese femminili oggi esistenti rappresentano quasi il 38% del totale, con un incremento di oltre 2.400 imprese rispetto a cinque anni fa, in particolare con una forte specializzazione nella cura e nell’assistenza all’infanzia. A dimostrarlo sono le 3.400 attività femminili che gestiscono servizi di asili nido, baby-sitting e assistenza diurna per minori disabili, che sono quasi l’82% di quelle registrate (4.170) e risultano in aumento di circa 200 unità rispetto a 5 anni fa. Questa rete di imprese dedita alla cura dei bambini si configura, insomma, come un prezioso aiuto per i papà e le mamme lavoratrici, e risulta particolarmente presente in alcune regioni (Lombardia e Lazio innanzitutto), meno diffuso, invece, nelle regioni più piccole, come Valle d’Aosta, Molise e la Basilicata.
Ecco perché l’imprenditoria femminile avvantaggia la comunità. Perché pensa alla comunità e alle sue necessità, a promuoverla e a farla crescere, con un messaggio da lasciare. E perché è capace di generare e di rigenerarsi. Quest’ultima riflessione è ulteriormente rinfrancata dalle ultime due interviste che ho condotto durante le dirette Instagram di AlleyOop #uncaffecon della scorsa settimana con Anna Fiscale di Progetto Quid e Valentina Passalacqua. Perché l’imprenditoria femminile è capace di generare e di rigenerarsi.
Entrambi i due esempi menzionati nascono, infatti, da un’insopprimibile esigenza interiore, come è nel caso della protagonista presentata in apertura. Non è solo business, ma “mettere su un’impresa” è la necessità di fare qualcosa di più che al tempo stesso resti alla comunità, piccola o grande che sia. Un’idea, uno spunto che emerge da un’intuizione nata dall’incontro di nuove sensibilità.
Progetto Quid è nato da un’idea di Anna Fiscale, sulla base della sua necessità personale di pensare ad una “seconda vita”, in cui l’imperativo fosse “trasformare i limiti in punti di forza”, valorizzando il “fragility factor”. Oggi Progetto Quid è una cooperativa sociale, una solida realtà imprenditoriale che dà lavoro a 150 persone, di 17 nazionalità diverse, la maggior parte delle quali provenienti da vissuti difficili e di fragilità. Sono ex detenute o vittime di tratta che lavorano, realizzando abiti confezionati grazie a tessuti che sono in magazzino e che non troverebbero nuove applicazioni o usi. Rimettono insieme pezzi della loro esistenza così come cuciono abiti che altrimenti non avrebbero mai visto la luce. Nuove vite, nuovi abiti, nuove esistenze.
“I capelli sono bellezza, i capelli sono potere!” ripeteva Madame C.J. Walker alle sue potenziali clienti che non credevano di valere nulla, di non potersi permettere il lusso di una crema per domare capelli crespi e ingestibili. Ebbene, anche il lavoro contribuisce alla bellezza di una persona, ne definisce i tratti, ne scolpisce la personalità.
Progetto Quid non solo scaturisce da quest’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria, ma si rigenera in era #PostCovid19. Progetto Quid – in epoca di pandemia – riconverte la produzione, realizzando mascherine e coinvolgendo anche altre realtà del territorio, in un circuito virtuoso di economia sostenibile e a basso impatto ambientale.
Nuove idee e nuovi orizzonti si intravedono quando c’è alla base una visione d’insieme: “Già dall’inizio dell’emergenza Quid aveva iniziato a prototipare e sviluppare mascherine – dichiara Anna Fiscale, presidente e fondatrice di Quid – questo ci ha permesso non solo di poter rispondere prontamente e in maniera sempre più efficiente alla grande emergenza in atto, ma anche di dare continuità lavorativa a tutta la nostra produzione, composta da persone con un vissuto non facile che avevano trovato in Quid un’occasione di riscatto e che questa crisi globale avrebbe potuto colpire molto duramente. Crediamo inoltre che quanto sta accadendo sottolinei la necessità di un cambio di paradigma che senz’altro coinvolgerà la moda e la sua fruizione da parte dei consumatori. Ora più che mai, sostenere la moda etica vuol dire regalarsi capi e prodotti belli e con un Quid in più, ma anche consentirci di continuare a creare bellezza. Se c’è qualcosa che facciamo bene in Quid è trasformare i limiti in punti di partenza per creare qualcosa di nuovo”.
“Per me il periodo della pandemia è stata una nuova rinascita” ha affermato Valentina Passalacqua in diretta su Instagram, per raccontare come ha trascorso questo periodo. “Essere costretti a stare fermi è stata un’occasione unica e irripetibile, un messaggio che la Natura ci ha mandato per dirci che dobbiamo cambiare stile di vita, che dobbiamo prenderci cura dell’unico pianeta in cui viviamo” ha aggiunto.
Ed è da qui è nato un nuovo progetto dell’imprenditrice pugliese, che ha scelto la strada del vino naturale. “Peaceful living” non è solo una nuova linea di vini. È un progetto che coinvolge anche i collaboratori in un percorso di crescita personale. È un orizzonte in cui nasceranno iniziative culturali e un festival all’interno dell’oasi biologica dove ogni elemento è pensato per rispettare e assecondare i ritmi dell’ambiente circostante. “Noi donne abbiamo una forza generatrice – aggiunge – e come con la mia prima figlia Giulia ho avuto la necessità e l’istinto di cambiare vita e far nascere qualcosa di mio, così ora la pandemia ha fatto crescere in me questa nuova consapevolezza”. Crederci, generare e rigenerarsi. Ripetere. Non è una formula, ma qualcosa in più.