Ho appena finito di parlare con oltre 1.000 tra genitori e bambini. Al posto del classico “bimbi in ufficio”, quest’anno impossibile da realizzare, le loro aziende hanno infatti deciso di proporre alle famiglie un webinar da fare insieme: tutti intorno al tavolo a scoprire cose nuove.
Si può fare? E’ davvero possibile per delle aziende proporre della “gioco-formazione” che sia occasione di incontro e scoperta per genitori e bambini? Come spesso succede, l’idea e la proposta è nata dalle aziende stesse; o meglio, dalle persone che in quelle aziende portano il cappello “HR” (o “personale”) e che con la loro capacità di ascolto attento hanno chiesto a degli specialisti – tra cui me- se potevano fare qualcosa del genere per loro.
E qui è d’obbligo una prima sosta. Come mai si fanno così di rado cose nuove, coraggiose e “strane” come questa? Vedo almeno due ragioni, tanto semplici quanto inesorabili. La prima sono i silos che delimitano l’area della nostra immaginazione: un’esperienza di “gioco-formazione”, in quale silos cade? E’ formazione o welfare? E’ sviluppo personale oppure work-life balance? Queste etichette che ci diamo e che ci danno per chiarirci chi siamo e che obiettivi abbiamo, quanto sono anche recinti angusti per il nostro senso della possibilità?
La seconda ragione riguarda la drammatica concezione dell’errore che si respira nel nostro Paese, e che ricade inevitabilmente anche negli ecosistemi delle nostre aziende. Qui da noi infatti l’errore è da evitare, spesso a tutti i costi. Meglio continuare a fare cose mediocri – o addirittura inutili – ma sicure, che arrischiarsi a provare qualcosa di cui non possiamo conoscere l’esito.
Perché no, non si può conoscere l’esito di qualcosa mai fatto prima: lo si può immaginare, lo si può attrezzare di dati e strumenti, lo si può disegnare come un obiettivo, ma poi la realtà dirà la sua, e la realtà degli esseri umani è imprevedibile, punto.
Gli sbagli e gli imprevisti dovrebbero essere premiati perché sono segnali di coraggio e di voglia di avventurarsi in soluzioni nuove, perché richiedono fatica, perché dimostrano che le persone ci stanno mettendo il cuore. Invece si premia chi resta al sicuro nel proprio recinto prefabbricato e si accoda al gruppo, e si usano schemi che non consentono ribaltamenti e contaminazioni… e per questo motivo si finisce col fare cose come non riaprire le scuole perché esiste solo il piano A, o col guardare alle persone un solo pezzo alla volta, parlando prima solo al lavoratore, poi al genitore, poi al talento, eccetera.
Che cosa succede però ai paraocchi, che spesso parano molto più degli occhi, in tempo di crisi? Il segmento di mondo a cui consentivano di guardare non esiste più e l’unica strada per continuare a vedere qualcosa è allargarli o, addirittura, toglierli.
Gesto inusuale, che richiede coraggio e va nutrito di rassicurazioni e di inviti a sognare.
Alcune persone – molte per fortuna – lo fanno, molte altre i paraocchi non li hanno mai accettati. E, se queste persone hanno il potere di prendere decisioni coraggiose per intere popolazioni aziendali, ecco che centinaia di persone vivono un’esperienza nuova e inaspettata. Perché le persone riconoscono subito qualcosa che “gli funziona” e non si fanno tante domande nell’aderire a proposte nuove, le fanno subito proprie.
E così oggi questo frammento di idea è diventato un’ora intorno al tavolo per le famiglie di oltre 50 aziende, in cui hanno scoperto che, durante la quarantena:
l’82% dei bambini ha provato soprattutto gioia;
il 49% ha provato anche tristezza;
il 32% ha provato anche rabbia.
E poi che:
il 72% dei bambini in questo periodo ha imparato a fare qualcosa di nuovo;
il 37,1% ha scoperto qualcosa che non sapeva su mamma o papà;
il 37,4% ha scoperto qualcosa di nuovo sul mondo.
Infine, dopo un gioco in cui potevano descriversi a vicenda, il 57% dei genitori ha detto che i propri figli li hanno descritti benissimo e il 25% ha capito di volergli mostrare in futuro anche altre parti di sé; mentre i bambini hanno detto in stragrande maggioranza – quasi il 90% – che i loro genitori li conoscono bene o addirittura benissimo. E’ stata formazione oppure un gioco? Ci importa davvero saperlo e, soprattutto, è una domanda che ha ancora senso?