Prof, ha letto che il coronavirus rimanderà a casa parecchie donne che prima lavoravano?
Speriamo di no. Anche se questo timore non è privo di fondamento, quella dell’occupazione femminile è una lunga storia, e non è ancora detto che finisca così.
Lo sviluppo economico italiano, dal dopoguerra ad oggi, è sempre stato sostenuto da una disponibilità ampia e apparentemente inesauribile di manodopera. Questa abbondante offerta di lavoro è derivata da un lato da un fattore demografico, ossia dalla progressiva immissione nella forza lavoro della generazione numericamente più consistente della popolazione, quella del baby boom, e dall’altro da un fattore comportamentale, ovvero l’incremento costante e auspicabilmente irreversibile della partecipazione femminile al mercato del lavoro. E’ la componente femminile della generazione del baby boom che ha sostenuto la crescita dell’occupazione, a fronte di una sostanziale stabilità nel tempo della componente maschile (Fiura 1).
Le donne della generazione del baby-boom non hanno seguito l’esempio delle loro madri: dapprima hanno studiato per tutto il tempo necessario a conseguire un titolo di studio professionalizzante, poi hanno affrontato un lungo periodo di ricerca in attesa della prima occupazione, durante il quale il loro il tasso di disoccupazione ha superato il 40%, e alla fine sono riuscite ad entrare in massa nell’occupazione diventando le vere protagoniste del cambiamento nella struttura produttiva del passato trentennio. Queste donne hanno trovato lavoro senza contendere posizioni alla componente maschile, ma cogliendo invece tutte le opportunità offerte dal processo di terziarizzazione dell’economia, e hanno cercato di rendere compatibili le esigenze della famiglia e quelle dell’attività lavorativa con molti salti mortali e pochi riconoscimenti sociali, spesso sacrificando la propria carriera alle necessità della conciliazione.
E’ mai possibile che adesso l’emergenza dovuta al coronavirus sia in grado di interrompere questa crescita dell’occupazione femminile, aumentando ancora la già notevole distanza del tasso di occupazione del nostro Paese da quelli degli altri Paesi europei? Convergono a sostegno di questo punto di vista due considerazioni: la prima è relativa alla struttura demografica della popolazione (Figura 2), che da un lato moltiplica le esigenze di cura e di assistenza sanitaria e dall’altro riduce le entrate del bilancio dello Stato; la seconda è relativa alla percezione ancora molto diffusa che il lavoro di cura debba essere prevalentemente di competenza della componente femminile della popolazione, e debba essere svolto prioritariamente in ambito familiare (Figura 3).
La Figura 2 mostra la trasformazione che il dispiegarsi del ciclo di vita delle generazioni più numerose ha prodotto sulla struttura della piramide delle età, evidenziata dallo spostamento del baricentro verso l’alto. Nei prossimi anni l’indice di dipendenza demografica aumenterà sia per i minori flussi in entrata nella popolazione in età lavorativa sia per i maggiori flussi in uscita dovuti al raggiungimento dell’età pensionabile delle coorti più numerose. Le nuove generazioni non basteranno più a sostituire quelle che escono dal mercato del lavoro, e il notevole aumento del tasso di dipendenza senile sarà aggravato dall’aumento del numero dei “grandi vecchi”, cioè di coloro che superano gli 80 anni, la cui quota sul totale della popolazione è già nel nostro Paese molto più elevata rispetto al contesto europeo.
Le conseguenze sul bilancio dello Stato sono prevedibili. In questo periodo le entrate sono ancora ben alimentate dalle imposte pagate dalla generazione del baby-boom, che si trova nella fase della vita lavorativa con retribuzione massima, mentre le uscite stanno traendo vantaggio dai bassi tassi di natalità registrati nel passato trentennio, che permettono il contenimento delle spese per l’istruzione dei giovani. Tuttavia, questa situazione cambierà radicalmente nel prossimo futuro, e la pressione fiscale tenderà a crescere, anche a politiche di bilancio invariate, perché da un lato le entrate saranno negativamente influenzate dal passaggio della generazione del baby-boom dalla condizione di occupato a quella di pensionato, e dall’altro la spesa pubblica per la previdenza e l’assistenza degli anziani subirà una forte crescita perché aumenteranno i beneficiari del sistema pensionistico e sanitario relativamente a coloro che contribuiranno ad alimentane le entrate.
Per non aumentare la pressione fiscale, o quanto meno per contenerne l’aumento, lo Stato, le regioni e gli enti locali cercheranno di rimandare nell’ambito della produzione familiare parte di quelle onerose attività di assistenza e di cura a cui dovrebbero far fronte, ma poiché nell’ambito della produzione familiare il lavoro necessaria a sostenerla grava principalmente sulle donne (Figura 3), le famiglie potranno farsene carico solo aumentando la condivisione, oppure sacrificando del tutto la partecipazione al mercato del lavoro e le prospettive di carriera delle donne.
La Figura 3 rappresenta l’indice di asimmetria nella condivisione del lavoro familiare nelle coppie in cui entrambi i partner sono occupati. L’indice misura il grado di condivisione dei carichi di lavoro familiare, indicando la quantità di lavoro svolto dalle donne sul totale di quello svolto da entrambi i partner. L’indice assume valore 100 nei casi in cui il lavoro familiare ricade esclusivamente sulla donna, ed è pari a 50 in caso di perfetta condivisione tra i due generi.
In questo contesto, l’emergenza sanitaria rende il tempo delle donne simile ad una coperta corta: da un lato sono spinte verso il mercato del lavoro dal loro titolo di studio e dall’altro sono tirate nella produzione familiare da esigenze fondamentali ma ancora poco condivise (e talvolta non condivisibili) come la cura di anziani e bambini.
Una maggior condivisione, ove possibile, è necessaria per far fronte alle conseguenze di questa emergenza sanitaria. E dal canto loro le imprese non possono non prendere atto di questa situazione. Il contesto demografico evidenzia che le famiglie di oggi sono molto diverse da quelle del passato. Il lavoro di cura è stato a lungo un problema invisibile per le aziende, specialmente per i manager le cui carriere sono iniziate quando gli uomini si concentravano totalmente sul lavoro per il mercato e le donne si facevano carico di tutte le esigenze di assistenza, ma questo atteggiamento non è più adeguato alla realtà attuale.
Fa ben sperare, da questo punto di vista, una recente ricerca della Harvard Business School (Fuller and Raman 2019); il 73% dei dipendenti intervistati afferma di avere responsabilità di cura, e il 32% afferma di aver lasciato un lavoro perché l’azienda non teneva nella giusta considerazione queste esigenze (e non erano solo donne, ma erano in maggioranza, maschi, giovani e in carriera).