Un’italiana, una giapponese e un banker si incontrano a Londra. Di cosa parlano? Del coronavirus, naturalmente.
L’altra mattina, come tutte le mattine, dopo aver salutato mio figlio, ho scambiato due chiacchiere con gli altri genitori alla fermata dello scuolabus. E’ del 27 febbraio la notizia che il Giappone chiuderà tutte le scuole del Paese per oltre un mese, aggiungendo all’angoscia per un possibile contagio quella di come gestire i figli per i genitori che comunque dovranno continuare a lavorare e che non hanno una famiglia allargata a portata di mano su cui appoggiarsi. E’ un vero problema, dice la mamma giapponese. L’utilizzo di tate e baby sitters è poco diffuso nel Paese asiatico.
La misura è ancora più drastica di quelle prese in Italia, dove ci sono il triplo dei casi, ma è comprensibile. Tokyo ospiterà le Olimpiadi questo luglio, per le quali il Giappone ha speso 25 miliardi di dollari e stima l’arrivo di 2 milioni di turisti. Posticipare o addirittura cancellare i giochi sarebbe un duro colpo.
Nel Regno Unito le scuole rimangono aperte, a discrezione dei presidi ma con una certa confusione sul da farsi. Mentre il governo insiste che solo la conferma di un’infezione condurrebbe alla chiusura, il chief medical officer dell’Inghilterra, Chris Whitty, ha ammesso che questa misura aiuterebbe a contenere il contagio. Al momento, sono 13 le scuole chiuse e 25 hanno mandato a casa studenti in auto isolamento, secondo quanto riportato da The Guardian.
Le scuole sono notoriamente focolai di infezioni, ma anche gli uffici sono a rischio. Il papà banker, questa mattina, ci informa che il suo datore di lavoro ha deciso di vietare qualsiasi tipo di viaggio all’estero tranne in casi eccezionali, e che se ci fosse anche solo un’infezione confermata di Covid-19, nel distretto finanziario dove ha sede, all’interno o meno della banca, tutto lo staff dovrà rimanere a casa.
Pochi giorni fa [26 febbraio], Chevron, la società petrolifera americana, ha reagito in modo simile e mandato a casa 300 persone dalla sede di Londra dopo che un dipendente rientrato da una zona a rischio ha manifestato sintomi influenzali. Non si ha ancora notizia sull’esito del test.
Le misure precauzionali abbondano, e stanno diventando sempre più importanti – dall’Asia, all’Europa, all’America. Le autorità, così come le imprese e ognuno di noi, hanno il compito di contenere il contagio senza creare ingiustificato allarme. E infliggendo il minor danno possibile all’economia. Non è un compito facile.
In Italia, purtroppo, il problema è fin troppo evidente e già si parla di una possibile recessione per gli effetti indiretti del nuovo tipo di virus – il settore del turismo, in particolare, è tra i più esposti.
Lo scuolabus parte. Il papà banker si avvia a prendere il treno che lo porterà in ufficio; la mamma giapponese ha altri due figli da portare a scuola; ed io torno a casa – da cui lavorerò fino al prossimo martedì, in quarantena. Il mio datore di lavoro, come altri, ha dato un giro di chiave alla policy del governo che richiede l’auto isolamento, anche senza sintomi, ma solo per chi è rientrato da parti specifiche dell’Italia dal 19 febbraio in poi. Ora la nostra direttiva interna si estende a tutto il Paese.
Tecnicamente, non si applica al mio caso – ero in Italia, in Friuli, ma rientrata la sera prima di quella data. Meglio essere prudenti, però, ho pensato. Sono pochi gli incontri di lavoro da posticipare, tutto il resto lo posso tranquillamente fare al telefono e dal mio laptop. Se non altro, questa epidemia ha evidenziato quanto sia superfluo il presenzialismo in ufficio, almeno in certi casi. Spero serva anche a stimolare la creazione di nuove soluzioni per gli altri in modo che il modo in cui lavoriamo diventi sempre più flessibile.
Nel frattempo, niente panico. Non sappiamo ancora abbastanza del virus e l’idea che la sua malvagità sia stata sopravvalutata, come dice la virologa Ilaria Capua, sembra plausibile. Ma fino a che questo non diventa una certezza, arrotondare in eccesso nella prudenza sembra l’unica decisione razionale.