Sapessi com’è strano sentirsi soli a Milano

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Alla fine sogniamo tutti piccole cose. E, senza quelle piccole cose, abbiamo ben poco da dire anche nel mondo virtuale dei social, che sembrava poter fare a meno della realtà.

“Che cosa ti manca di più?” ha chiesto un giornalista, in questi giorni di Coronavirus, a un ragazzo a due metri di distanza da lui, confinato nella zona rossa. “Gli abbracci con gli amici, le bevute… lo stadio!”.

Sul lavoro, anche per chi potrebbe continuare a farlo quasi come se niente fosse, mancano tutte quelle interruzioni e scadenze che di solito malediamo: la conferenza “inutile”, la riunione “eterna”, l’appuntamento dall’altra parte della città, la trasferta.
Il tempo si dilata, ma non siamo in grado di usarlo tutto:

ci accorgiamo che, come nella musica, le pause non erano solo momenti vuoti, ma facevano parte della melodia.

Dovrebbe piacerci, andare in giro per una città semivuota, sentirci a febbraio come se fosse agosto, e invece sentiamo la mancanza degli altri: quelli che ci passavano avanti in fila, che ci rubavano il posto in metropolitana, che parlavano a voce troppo alta nei bar. Gli altri spesso ci infastidivano, e non ci accorgevamo che ci stavamo tenendo compagnia, e che senza di loro c’è qualcosa di meno anche di noi.

Più di tutto, a dilatare il tempo è l’incertezza: anche le vacanze sono belle quando hanno un inizio e una fine, consentendoci di distribuire fatica e riposo. Adesso invece è difficile dosarsi: obbligati a prendere un passo diverso senza sapere quanto a lungo dovremo tenerlo, né quando dal rosso si passerà al verde, e se in mezzo avremo un giallo che ci indichi come riprendere il ritmo.

In questa vacanza, intesa come “vuoto”, manca la pressione della normalità che dovrebbe tornare dopo. Diventa difficile pianificare delle vie d’uscita: consolarsi della noia odierna con qualche progetto futuro, provare sollievo per le mancate vendite immaginando una ripartenza col botto.

Nell’incertezza, il furto più grande è proprio quello dell’immaginazione, perché immaginare richiede energia. E l’energia, adesso lo sappiamo, ce la dava lo stare con gli altri: le relazioni, mentre sembrano rubare tempo all’efficienza, nutrono la nostra possibilità di essere molto di più di quel che sta in una definizione.

Perché, per esempio, io mi sentivo definita da tante cose che non sto facendo più: giocare a pallavolo, andare al cinema, uscire a bere un bicchiere di vino, abbracciare. E mi definivano gli sguardi degli altri: quello distratto di chi ti vede appena, quello attento del pubblico di un convegno, quello critico di un interlocutore difficile da convincere, quello imprevisto e quotidiano degli sconosciuti.

Quel virus là, quello della solitudine non scelta: abbiamo calcolato che percentuale di vittime fa?