“Preoccupiamoci per le ragioni giuste e ci avvicineremo alle soluzioni”. In un momento di allarme generale sui cambiamenti climatici, dovuto anche alle particolarissime circostanze di un’estate di disastri ambientali, queste parole sono come acqua fresca. A pronunciarle è Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano e divulgatore scientifico.
Intendiamoci: va bene preoccuparsi, è il minimo a questo punto della storia. Va bene se all’improvviso ci siamo svegliati tutti per renderci conto di qualcosa che gli scienziati stanno provando a spiegarci da almeno vent’anni, ma non dobbiamo perdere di vista che i problemi così come li abbiamo creati possiamo risolverli. O almeno provarci. L’importante è sapere quali, altrimenti si tratta solo di allarmismo inutile. La verità è che non possiamo indignarci per il fuoco in Amazzonia senza pensare alle emissioni di cui siamo direttamente responsabili.
Quest’estate è stato celebrato il funerale simbolico di un ghiacciaio islandese, il primo di dimensioni rilevanti che perdiamo per via del cambiamento climatico. Se ne è parlato pochissimo, al contrario degli incendi in Siberia e Amazzonia. Eppure sono due fenomeni strettamente collegati. Spiega Giorgio Vacchiano: “Gli incendi che accompagnano la deforestazione ci fanno parlare di due gas: anidride carbonica (CO2) e ossigeno. Gli incendi emettono CO2, che accelera il cambiamento climatico. Si aggiunga l’effetto delle nostre emissioni sul bilancio energetico del pianeta. È questo il vero pericolo: a tale ritmo, tra 10-12 anni avremo emesso tanta anidride carbonica da alterare il clima della Terra per alcuni secoli”.
Il problema degli incendi in Amazzonia, allo stato attuale, va scollegato dunque dalla narrativa poetica che la vuole polmone del mondo. Continua Vacchiano: “Tra il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra è prodotto dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste che crescono velocemente, accumulando carbonio e rilasciando ossigeno. L’Amazzonia non produce il 20% del’ossigeno nel mondo, un dato errato che rimbalza anche sulle testate più prestigiose. La cifra varia da 0 a 6%. Anche se la foresta producesse nettamente ossigeno, non è questa la ragione per cui preoccuparsi: nell’atmosfera c’è il 21% di ossigeno e lo 0.0415% di CO2. L’anidride carbonica è la causa principale dell’effetto serra, e poiché in proporzione ce n’è poca nell’atmosfera, aggiungerne o toglierne un poco fa molto più effetto che aggiungere o togliere un poco di ossigeno. Quando una foresta brucia, dagli alberi e dal suolo si libera nell’atmosfera il carbonio di cui sono fatti. Aumentare la CO2 significa aggravare il riscaldamento climatico, che rende probabili altri incendi, e così via in un circolo vizioso. Ecco il problema principale”.
Secondo un articolo del Guardian, da gennaio a luglio 2019 sono bruciati 18600 km quadrati di foresta amazzonica, cioè lo 0.3%. All’inizio di agosto questa superficie era il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Nel corso del solo mese di luglio sono andati persi 2.254 kmq di foresta, con un aumento del 278% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. È evidente che non si tratta solo di un fenomeno naturale dovuto alla stagione secca. È evidente, come sempre, l’ingerenza umana.
Di sicuro la politica di Bolsonaro non è innocente, ma a questo punto farne una questione politica di sostegno o opposizione a un partito suona decisamente stupido. Anche se Vacchiano non se ne sorprende: “In un certo senso le diffidenze sono comprensibili, perché nessuno dei governi che ha avanzato critiche può dirsi particolarmente virtuoso sulla lotta al cambiamento climatico. Dall’altra parte, l’uomo ha un bisogno fondamentale di modelli da seguire, idee a cui affezionarsi, un “senso” da dare alla propria vita. Se questo senso e questa narrazione vengono offerti da un governo che sa sfruttare le paure più immediate e non racconta cosa ci aspetta tra uno o pochi decenni, in molti lo seguiranno. Dobbiamo quindi iniziare a raccontare storie, coinvolgere le emozioni oltre che il cervello, trasmettere senso e appartenenza, non solo nozioni. Allora forse cambierà qualcosa”.
Ma affinché qualcosa cambi davvero, sono molto più impattanti le azioni collettive, affiancate alla responsabilità individuale. Azioni istituzionalizzate, soprattutto, secondo il ricercatore: “Non solo leggi ma incentivi, disciplinari, certificazioni. Ancora di più quelle internazionali, come l’accordo di Parigi o l’accordo REDD+ per la riduzione della deforestazione. Le azioni collettive dal basso sono il pungolo che può ottenere che le azioni istituzionali vengano intraprese, o spesso l’attuazione “profetica” e volontaria di qualcosa che piano piano può diventare abitudinario e istituzionalizzato”.
Ecco perché, a questo punto della storia, non possiamo esimerci dal chiederci quale sia l’impatto delle nostre azioni quotidiane su questa emergenza. La responsabilità appartiene a tutti, come è stato scritto nel messaggio per i posteri sulla lapide del ghiacciaio Okjokull:
“Sappiamo quello che sta succedendo e quello che deve essere fatto. Solo voi saprete se lo abbiamo fatto”.