Afghanistan: «Negoziare con i talebani pur di aiutare la popolazione al collasso»

Il linguaggio dei fatti. È questo l’unico strumento che in Afghanistan riesce a salvare le donne attraverso progetti sul territorio che non si limitano a contenere le emergenze, ma attivano una ripresa a lungo termine. Dopo che i talebani hanno preso il potere nel Paese nel 2021, le Ong internazionali – nel mirino del regime – hanno dovuto interrompere molte delle loro attività nel Paese a causa di due fattori principali: la politica talebana nei confronti del personale femminile e l’incertezza riguardo al finanziamento e alla sicurezza delle organizzazioni.

La storia di chi oggi rimane è una storia di resistenza e negoziato: mediare per poter operare è la strada perseguita pur di lavorare e garantire assistenza umanitaria alla popolazione. «Continuiamo a lavorare in Afghanistan, nonostante molte Ong se ne siano andate – racconta ad Alley Oop Susanna Fioretti, founder di Nove Caring Humans – Ci accusano di trattare con i talebani ma è l’unico modo di fare qualcosa: salvare le persone dalla fame, fornire un sostegno economico alle donne che non hanno fonte di reddito, dare loro assistenza medica perché il sistema sanitario è inesistente». Così facendo, Nove Caring Humans – operativa in Afghanistan dal 2013 – ha raggiunto 80.000 persone, il 70% donne e bambini.

3,1 milioni di afghani costretti al ritorno

Nell’evacuazione dell’agosto 2021 da Kabul, Nove ha coordinato le operazioni con le autorità diplomatiche e militari italiane supportando oltre 400 persone. Oggi gli afghani costituiscono una delle più grandi popolazioni di rifugiati al mondo, con quasi il 90% ospitato in Iran e Pakistan. Sebbene entrambi i Paesi abbiamo mantenuto politiche inclusive nei confronti dei rifugiati, negli ultimi anni lo spazio di protezione si è drasticamente ridotto.

Da settembre 2023, come riporta Unchr, oltre 3 milioni di rifugiati afghani sono rientrati o sono stati costretti a tornare dai Paesi vicini. Oltre il 70% dei rifugiati sono donne e bambini: a rischio di essere forzatamente rimpatriati in un Paese sull’orlo del collasso.

L’apartheid di genere cancella le afghane

«I rifugiati afghani non dovrebbero avere timore di tornare in patria» afferma Khaled Ahmad Zekriya, ambasciatore afghano in Italia, durante un evento tenutosi all’ambasciata dell’Afghanistan a Roma: la presentazione del libro “In una casa isolata” di Edoardo Albinati e Antonio Capaccio, insieme a una mostra di opere su carta di Antonio Capaccio, diventano il pretesto per non smettere di fare luce su quello che sta accadendo e raccogliere fondi per supportare chi riesce a intervenire concretamente sul territorio.

Fare luce serve per non smettere di guardare quello che in Afghanistan continua ad accadere: l’apartheid di genere che criminalizza le donne per il solo fatto di esistere, escludendole da quasi ogni aspetto della vita pubblica e negando loro l’accesso all’istruzione, alle cure mediche e al sistema giudiziario. Sono stati oltre più di ottanta gli editti emessi dal regime talebano per cancellare la loro libertà e presenza dallo spazio pubblico.

L’ultima legge per “promuovere la virtù e prevenire il vizio”, approvata dal leader supremo Hibatullah Akhundzada, include molte misure che riguardano soprattutto le donne: in pubblico devono sempre velare completamente il loro corpo, viso incluso, per evitare di indurre gli uomini in tentazione e vizio. Le loro voci sono ritenute potenziali strumenti di corruzione: per questo motivo non possono parlare in pubblico. La voce di una donna, considerata privata, secondo le misure imposte non dovrebbe essere ascoltata da persone che non fanno parte della famiglia mentre canta, recita o legge ad alta voce.

«Ogni volta che una donna adulta esce di casa per necessità, è obbligata a nascondere la voce, il volto e il corpo» affermano le leggi che, come sottolinea l’ambasciatore afghano, «abbassano le voci delle donne nel pubblico» e hanno conseguenze a tutto tondo: «Il tentativo di cancellare la presenza delle donne dalla sfera pubblica ha un impatto sia sulla società che sull’economia: le donne rappresentano una potente forza lavoro e contribuiscono allo sviluppo del Paese».

Il primato dell’Afghanistan

I primati dell’Afghanistan sono due. Entrambi tristi e preoccupanti: «È l’unico Paese al mondo che vieta l’educazione femminile dopo le scuole primarie. Niente liceo e niente università. Non c’è un altro paese al mondo che lo fa» spiega ad Alley Oop Fioretti, che aggiunge: «Il secondo primato è quello di essere il peggior Paese al mondo per una donna: i diritti femminili sono praticamente spariti, anche quelli fondamentali. Un paese così, soprattutto le sue donne, non dovrebbero essere dimenticati». In una situazione così radicale, serve agire altrettanto radicalmente con un obiettivo principale: aiutare la popolazione al collasso.

«Abbiamo un ufficio permanente a Roma e uno a Kabul – sottolinea Fioretti – Risparmiamo il più possibile: abbiamo un ufficio in comodato per non spendere soldi e metterli sui progetti». I fondi servono a concretizzare le iniziative che aiutano persone disabili, donne, bambini. Una dedizione costante, altrettanto ostacolata: «Prima del 2021 avevamo dei progetti bizzarri in Afghanistan: una scuola guida femminile, l’unica a Kabul, con un Pink Shuttle. Avevamo un grande centro di formazione femminile. Ma la polizia religiosa ci ha sequestrato tutto. Ora le donne possono guidare se hanno una licenza, ma non sono concesse altre licenze».

Il Pink Shuttle, iniziativa in  collaborazione con OTB Foundation, ha formato le prime 14 autiste professionali di Kabul. Ha offerto passaggi gratuiti a centinaia di donne e garantito il trasporto di atlete disabili con il Banu Bus Social Service, aperto nel 2020. Per continuare a lavorare e dar vita a nuovi progetti, consolidando quelli già in atto, l’Ong ha scelto di assumere una postura precisa a tutela della popolazione: «Quando sono arrivati i talebani e molte organizzazioni sono andate via abbiamo dovuto fare una scelta – spiega ad Alley Oop la founder Fioretti – Abbiamo provato a trattare con i talebani e oggi tutti i nostri progetti sono fatti in base a un accordo con l’Emirato islamico dell’Afghanistan, ossia i talebani. Questo è sicuramente opinabile, discutibile. Ma è l’unico modo di lavorare in Afghanistan oggi».

Imprenditoria femminile

Essere una delle poche Ong italiane ancora operative nel Paese significa stare nel presente e coltivare una visione a lungo termine. Per Nove non può esserci libertà per le donne afghane senza indipendenza economica. Negli ultimi vent’anni, le donne afghane hanno avuto un ruolo attivo nello sviluppo economico del Paese, fondando e gestendo circa 57.000 piccole e medie imprese. Dal 2021 l’esclusione sistematica delle donne dal lavoro ha avuto effetti devastanti. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), questa politica ha causato una perdita annua di circa 1 miliardo di dollari, pari al 5% del Pil afghano. La partecipazione femminile alla forza lavoro è crollata, passando dall’11% nel 2022 al 6% nel 2023.

Nonostante le restrizioni, molte donne hanno trovato nell’imprenditoria una forma di resilienza: come registra l’Undp, l’80% delle imprese femminili è la principale fonte di reddito per le famiglie.

Indipendenza economica

Dal 201 Nove opera in Afghanistan per promuovere l’indipendenza economica delle donne. Ha fondato un centro di formazione professionale a Kabul che ha formato oltre 2.700 donne e facilitato il collocamento lavorativo di più di 400. Nel 2020 ha lanciato il premio “Daring Women in Business” e creato il “Women in Business Hub” (WiBH), poi sospeso nel 2021 per motivi politici e logistici. Anche quando alcune attività sono state interrotte a causa delle restrizioni, Nove ha mantenuto il dialogo con le autorità de facto, sfruttando ogni apertura possibile per garantire assistenza e opportunità economiche.  «Noi ci occupiamo di donne a 360 gradi – racconta ad Alley Oop la fondatrice – Sia con progetti di emergenza, ovvero dare da mangiare a chi veramente non ha cibo, sia con percorsi che insegnano e danno strumenti per creare lavoro e lavorare meglio. Su quello, letteralmente, mangiano intere famiglie»

Con il progetto “Vocational Training, Soft Skills e Business Marketing”, avviato nel 2022, 150 donne selezionate in base a criteri di vulnerabilità economica e sociale hanno ricevuto una formazione completa, che includeva anche corsi in soft skills, marketing digitale, contabilità e gestione d’impresa. A ciascuna è stato garantito un mentoring personalizzato, con accompagnamento post-formazione e accesso a strumenti digitali per la promozione delle proprie attività (tablet, connessione, supporto al business). Molte partecipanti hanno iniziato a generare reddito già nei primi mesi, coinvolgendo altre donne e avviando piccole attività. Il successivo divieto imposto dal governo talebano ha portato alla chiusura di tutti gli esercizi di estetica, bloccando le imprese nate in quel settore.

Tuttavia, le competenze acquisite hanno aperto nuove possibilità di adattamento e reinvenzione, grazie alla versatilità dei profili formati e alla rete di supporto creata. Oltre a creare un impatto concreto, i progetti di imprenditoria femminile puntano a essere replicabili: è il caso di “Bread for Women”, nato a Kabul come risposta concreta per rafforzare il ruolo delle donne nella produzione di cibo e nella resilienza comunitaria.

L’iniziativa unisce l’intervento umanitario a un percorso di empowerment economico, valorizzando un sapere tradizionale – quello delle panificatrici afghane – e trasformandolo in motore di autonomia e solidarietà. Riabilitando alcune panetterie femminili nei distretti più poveri della capitale, il progetto ha trasformato queste attività in microimprese autonome e durature: oltre a garantire il salario delle fornaie e delle loro assistenti ha fornito le materie prime necessarie per la produzione quotidiana di pane, distribuito gratuitamente a donne capofamiglia in stato di estrema povertà. Ogni giorno, oltre 1.000 persone hanno ricevuto pane fresco grazie a questa rete di solidarietà alimentare.

Con la stessa logica di interventi replicabili e capaci di attivare economie locali, Nove guarda oggi anche a filiere produttive sostenibili, dove il lavoro femminile possa generare valore per le comunità. Il progetto “Semi di Rinascita”, avviato nel 2024 nelle province orientali più colpite dalla crisi alimentare, combina l’allevamento su piccola scala con lo sviluppo di attività agroalimentari, offrendo a migliaia di donne e famiglie la possibilità di costruire nuove fonti di reddito e di rafforzare la sicurezza alimentare. Una prospettiva analoga guida il recente progetto “Renew & Restart”, che trasforma l’emergenza ambientale dei rifiuti plastici in Kabul in un’opportunità concreta di inclusione e autoimpiego: attraverso percorsi artigianali e imprenditoriali, le donne coinvolte imparano a generare valore da materiali di scarto, contribuendo al contempo alla costruzione di un’economia circolare dal basso.

Progetti diversi, un filo comune: mettere nelle mani delle donne strumenti, competenze e reti per rigenerare il tessuto economico e sociale delle comunità. «Le donne sole sono quelle che soffrono di più – sottolinea ancora la fondatrice Fioretti – Senza un uomo oggi è spesso molto difficile anche muoversi, uscire di casa. Gran parte dei lavori non possono essere fatti. Sono prigioniere in casa e letteralmente muoiono di fame. Per loro è fondamentale poter accedere ad attività che permettano di produrre reddito».

Educazione, «una questione di sopravvivenza per le bambine»

La formazione delle donne si accompagna a quelle delle ragazze. L’educazione nell’Afghanistan dei talebani, sempre più ostili al diritto all’istruzione, diventa uno spazio di libertà e opportunità. Secondo il recente rapporto “Banned from education: a review of the right to education in Afghanistan”, pubblicato dall’Unesco, dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021 oltre 1,4 milioni di ragazze sono state escluse dalla scuola secondaria, mentre le restrizioni continuano ad aggravarsi anche per la scuola primaria e per l’istruzione non formale. L’assenza di accesso all’istruzione, sottolinea lo studio, alimenta un circolo vizioso di povertà, lavoro minorile e matrimoni precoci, fenomeni che stanno crescendo in modo preoccupante, soprattutto nelle aree rurali.

Alcuni progetti sul campo provano a contenere l’impatto sociale di queste politiche. Il progetto “WEDUT” ha permesso, attraverso una difficile mediazione con le autorità locali, di offrire percorsi gratuiti di istruzione fino alla sesta classe e corsi avanzati di lingua inglese per donne e ragazze. Un piccolo margine di azione in un sistema fortemente chiuso, che ha consentito di mantenere vivo un canale di apprendimento e di relazione. Sul versante della protezione dell’infanzia, l’organizzazione sostiene due orfanotrofi pubblici nella provincia di Kapisa e l’orfanotrofio femminile Future Hope di Kabul, garantendo non solo un pasto quotidiano e un alloggio sicuro, ma anche un supporto educativo e psicologico. In parallelo, con il programma “DIGNITY” si lavora con le famiglie più vulnerabili per offrire alternative alla dispersione scolastica e ai matrimoni precoci. L’impegno educativo si estende anche oltre i confini afghani. In Italia, il progetto “I Nostri Diritti” porta avanti un’attività di sensibilizzazione sul tema dei diritti umani e delle disuguaglianze di genere, coinvolgendo anche le scuole attraverso webinar dedicati.

Un lavoro prezioso che alimenta la consapevolezza e il dialogo, costruendo ponti tra culture e generazioni. Il lavoro sul territorio — frammentario e spesso ostacolato — dimostra quanto l’accesso all’istruzione resti oggi un fronte aperto e fragile in Afghanistan, e quanto ogni spazio di apprendimento conquistato rappresenti un passo per contrastare la deriva dei diritti. «Molte bambine rischiano di essere vendute piccolissime, sacrificate a matrimoni precoci. I bambini rischiano abbandono e sfruttamento – conclude Susanna Fioretti – Per loro garantire protezione e accesso all’istruzione è davvero una questione di sopravvivenza».

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