Lavoro, il senso che non c’è della nostra corsa frenetica

Fermate il treno, voglio scendere: sui giornali di questi giorni sono molte le voci che denunciano l’insostenibilità del mondo che ci siamo creati, puntellando di notizie apparentemente diverse, ma collegate, una narrazione senza più respiro.

Aspettiamo e temiamo le dimissioni di un Papa sempre più stanco: a farlo ammalare è stato il peso delle anime del mondo (cattolico, ma non solo) di cui si prende cura. Fare il Papa deve essere davvero il lavoro più difficile del mondo, soprattutto oggi.

Giovani “altrove”

L’ansia fa fuggire i ragazzi dalle scuole: è sempre stato un po’ così, ma adesso è virale, è il virus dopo il virus, è una mancanza di senso, è che una scuola inchiodata su metodi e parametri obsoleti i ragazzi semplicemente non li vede. Inutili gli sforzi di insegnanti appassionati e accudenti. Deboli le accuse di una “classe genitoriale” che sembra a sua volta smarrita: i nostri genitori non erano meglio di noi, ma il mondo allora era più facile, adesso le sfide sono tutte maiuscole e ai ragazzi resta solo la possibilità di spegnersi.

Negli Stati Uniti dei fucili semiautomatici nelle scuole, sotto accusa sono i social: TikTok insegna ai giovani a suicidarsi – ma crea anche comunità, risponde la difesa, diffonde anche gioia. Comunque sia, li abbiamo messi davanti a degli specchi magici che riflettono quel che lo specchio vuole e che saranno sempre infinitamente più stimolanti della realtà – li abbiamo progettati per questo – e con orrore scopriamo che il riflesso ha più chance di tutto il resto di diventare reale.

Un’Ai da paura

Magnati e scienziati chiedono di “rallentare l’intelligenza artificiale”. Ci sarebbe da ridere se non facesse paura: è chiaro che rallentare non si può, neanche volendo. L’abbiamo voluta così, la tecnologia: che accelerasse tutto, che moltiplicasse all’infinito, sullo sfondo un flebile obiettivo di “benessere per tutti” che tanta abbondanza avrebbe generato.

Ma quando ci siamo convinti che per lo sviluppo umano fosse meglio investire nella tecnologia che nell’umano? L’umano, poi, avrebbe dovuto seguire? E invece l’umano arranca: sono le regole a non tenere più il passo, e le distanze si fanno incolmabili.

Datti valore

Sempre sui giornali: l’amministratore delegato di una banca guadagna duecentocinquanta volte quel che guadagna un suo impiegato (bonus escluso). I numeri perdono ogni senso in questa dimensione: è difficile anche immaginarli. Ma il significato? A parità di ore di lavoro, il tuo capo produce duecentocin…quante volte più valore di te? E allora tu: tu quanto valore produci – e quindi, nell’inevitabile analogia a cui siamo abituati, quanto vali?

Così si torna alla scuola, al concetto di “merito”, agli obiettivi, al bisogno di sentirsi visti, che si sente senza dargli un nome, perché più che un bisogno è una mancanza, è qualcosa che non c’è: è il vero te, quello che lo specchio non vede e così ti fa sparire nel riflesso di mille definizioni sbagliate, fuori posto.

Chi può fermare questo treno?

I giovani si sentono fuori posto, ma è il posto a essere sbagliato, non sono loro.

E gli adulti? Chi lavora non si riconosce più in un mestiere e fa “quiet quitting”: resta per necessità e mette il cuore altrove, o lo dimentica. La tecnologia gioca con questi bisogni e li pacifica per la durata di un video su Instagram, il tempo di una ricetta veloce, e così il tempo si riempie: non è il tempo a essere vuoto, eppure un vuoto c’è.

E’ sotto ai nostri occhi, nelle notizie di ogni giorno, che prese una alla volta rattristano, preoccupano, fanno paura, fanno male, ma viste tutte insieme ci mostrano il mondo così com’è: quel treno da cui vorremmo scendere, ma è il nostro unico treno e il freno d’emergenza non c’è. Ma il capotreno siamo noi. Oppure no?

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