La parità di genere tra novità normative e snodo della governance

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L’ultimo decennio ha visto l’evoluzione di linee guida “gender friendly”, adottate su base volontaria dalle aziende (soft law) e l’entrata in vigore in Italia e in Europa di leggi applicabili alle imprese private (e nel caso italiano anche alle controllate pubbliche) e alla finanza (hard law). La certificazione di genere quali ulteriori novità porta in questo contesto in piena evoluzione? “Sicuramente la certificazione di genere porta con sé alcune novità significative: si focalizza sulla cultura più che sull’ obbligatorietà e – questa è davvero un’evoluzione importante – può applicarsi non solo alle quotate ma a tutte le imprese, anche piccole e medie. Può quindi diventare una misura diffusiva, di cambio culturale e organizzativo” ci spiega l’avvocata Milena Prisco, specialista su temi di genere e più in generale di governance.

L’Italia ha già fatto un grande passo avanti con la legge Golfo Mosca del 2011 sulle quote di genere, anticipando anche le direttive europee di 10 anni. Lei come valuta quella norma? 

Quanto a norme cogenti siamo pionieri in Europa, esemplari quando si tratta di rispettarne i criteri quantitativi, un po’ meno quando si tratta di promuovere culturalmente e imprenditorialmente la leadership femminile ai vertici dei poteri decisionali.

Grazie alla legge Golfo Mosca e poi alla successiva revisione in occasione delal legge di bilancio del 2019 con l’incremento della quota riservata al genere meno rappresentato dal 33% al 40% degli amministratori, le percentuali di donne nei board delle quotate è andata oltre il 40%, superando anche la raccomandazione n. 8 del Codice di Corporate Governance in vigore per le quotate in Borsa dal 2021, che richiede almeno un terzo dell’organo di amministrazione e dell’organo di controllo costituito dal genere meno rappresentato.

Per il rapporto annuale 2021 di Consob, la presenza femminile negli organi di amministrazione delle quotate in Borsa ha raggiunto il massimo storico nel mercato italiano (41% degli incarichi), ma le società che hanno un amministratore delegato donna alla fine del 2021 sono il 2% della capitalizzazione complessiva. Non consola che questi dati siano in linea con l’Europa dove ad ottobre 2021, le donne rappresentavano soltanto il 30,6 % dei consiglieri dei Cda delle maggiori società quotate in Borsa e appena l’8,5 % nelle cariche di presidenti dei Cda (cfr. European Institute for Gender Equality). “Fatta la legge, è trovato l’inganno” e la stanza dei bottoni resta quindi poco accessibile.

Abbiamo un impianto normativo ormai attento alla diversità e all’inclusione di genere, ma a livello organizzativo le donne fanno ancora fatica a realizzarsi professionalmente. Perché, secondo lei? 

Se guardiamo alle politiche di genere c’è opacità. Per fare un esempio, il decreto legislativo n. 254/2016, che recepisce la Direttiva 2014/95/UE sulla dichiarazione non finanziaria, spesso impropriamente chiamata “bilancio di sostenibilità”, ha modificato l’art. 123-bis del Testo Unico della Finanza con l’obbligo, per le quotate in Borsa, di indicare nella relazione annuale sul governo societario una descrizione delle eventuali politiche adottate in materia di diversità della composizione degli organi sociali, con gli obiettivi, le modalità attuative e i risultati da esse raggiunti; la norma il più delle volte disattesa si basa sul criterio comply or explain: laddove la società non adotti alcuna policy di genere, dovrà solo darne chiara motivazione senza la comminazione di sanzioni.

Una maggior presenza di donne in incarichi esecutivi è una sfida ancora da vincere. Come si può fare? 

Questo persistente gap negli incarichi esecutivi è al centro della proposta di direttiva europea del marzo scorso, riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori delle società quotate in borsa, che pone l’obiettivo del 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi riservati alle donne, ovvero di almeno il 33 % di tutti i posti di amministratore con e senza incarichi esecutivi entro il 31 dicembre 2027. Quindi, ancora una volta contro i pregiudizi deve scattare una norma. Questa proposta, incubata a Bruxelles per ben dieci anni, prova a stanare “l’inganno” degli incarichi non esecutivi con la trasparenza dei processi di selezione e dei criteri di qualificazione per l’assegnazione dei posti nei Cda che dovranno essere neutri, univoci e stabiliti prima delle selezioni ed essere resi noti dalle società.

Il ristretto perimetro di applicazione delle quote di genere alle banche e alle società quotate in Borsa, ma non ad esempio all’Euronext Growth Italia (ex AIM), che di fatto esclude le PMI, crea un modello elitario che tradisce il principio osannato dai tanti standard internazionali che dagli SDGs dell’ONU in avanti proclamano la parità di genere come valore imprescindibile e presupposto della “buona governance” quale cardine dello sviluppo sostenibile delle aziende.

Le storiche ragioni di “opportunità” quali le dimensioni ridotte delle PMI, l’estraneità al mercato dei capitali e il costo (sic!) delle quote rosa che non consentirebbero una “governance allargata” al genere femminile sono state per certi versi negate dal decreto della Ministra Bonetti del 29 aprile 2022, dal 1° luglio in Gazzetta Ufficiale con le “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere”. Il decreto stabilisce come prassi di riferimento la UNI/PdR 125:2022 anche in relazione alla presenza delle donne negli organi di governo societari, con parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere da parte anche delle PMI secondo il principio di proporzionalità rispetto alle dimensioni delle aziende e con la trasparenza dei processi di selezione in linea con la proposta di direttiva europea sopra citata. La certificazione “premia” le aziende che la conseguono, la chiave per nuove politiche di genere deve essere la premialità, la trasparenza accanto alla obbligatorietà delle quote se si vuole un reale cambiamento culturale a danno dei pregiudizi di sistema e l’inclusione delle PMI, ne beneficerebbero le aziende con le loro filiere, i mercati e la finanza per un processo di naturale (e non coattivo) integrazione che forse finalmente eviterebbe crisi di rigetto del “fattore rosa”.

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