Empatia e risolutezza, presenza e delega, risultati e benessere del team. A chi ricopre ruoli di responsabilità viene chiesto tanto. Soprattutto, viene richiesto di tenere insieme aspetti che spesso sono tra loro antitetici.
Non è dunque un caso se, come evidenzia Gallup, negli ultimi anni i manager hanno riportato livelli di burnout più elevati rispetto ai propri collaboratori. Frequentemente si afferma che le persone non lasciano l’azienda ma il proprio capo. Le ragioni sono molteplici: relazioni conflittuali, stili di leadership centrati sul controllo, mancanza di riconoscimento e così via. Tutti elementi da attenzionare e su cui intervenire, certo. Ma se la ragione di questi comportamenti che portano le persone – letteralmente – a scappare, risiedesse nel fatto che stiamo perdendo di vista il benessere psicologico di chi è manager?
Come ricorda un articolo dell’Economist, chi ha ruoli di responsabilità si divide tra aspettative, il più delle volte irragionevoli, di chi sta sopra e di chi sta sotto. Sono spesso soggetti a richieste contrastanti e molti di loro sono manager per accadimenti di carriera, piuttosto che per consapevoli scelte e autentiche ambizioni. Tanti, infatti, ricoprono questo ruolo perché è l’unica via possibile per una maggiore retribuzione e per ottenere influenza.
Dovremmo dunque domandarci: quanti responsabili desiderano essere tali perché ciò offre loro la possibilità di gestire e far crescere altre persone? E quanti, invece, aspirano ad esserlo per tutte le restanti implicazioni? Ossia reddito, riconoscimento, prestigio, potere, status e benefit?
Essere in grado di prendersi cura della dimensione umana e relazionale del proprio team non è di per sé semplice. Anche quando c’è la motivazione a farlo. Ragione per cui diventa ancora più complesso nel momento in cui questo compito viene vissuto come una sorta di effetto collaterale del proprio ruolo di manager.
Formare chi i responsabili all’empatia e a una leadership a misura di benessere psicologico diventa spesso complesso non tanto perché sono competenze che – se non possedute naturalmente – sono difficili da acquisire. Quanto, piuttosto, perché manca un reale e autentico ingaggio alla base. Occuparsi di persone richiede volontà e impegno. Se non si possiedono inclinazione e desiderio in tal senso – ma ci si ritrova comunque a doverlo fare in virtù del ruolo che si ricopre – il rischio è altissimo. In chi è manager si generano vissuti di frustrazione e inadeguatezza, in chi è collaboratore, malcontento.
Ecco allora che forse potremmo affermare che le persone non lasciano i propri capi: lasciano quei capi che faticano a riconoscere, valorizzare e gestire la dimensione umana. Quei manager che desiderano essere manager, ma vorrebbero esserlo senza team al seguito. Responsabili senza persone e dunque, in definitiva, responsabili di chi?
La domanda da porsi diventa dunque: si è diventati manager per un reale desiderio alla base o per un “incidente” di percorso? E se lo si è perché si desiderava esserlo, cos’è che ha spinto a diventarlo? La retribuzione, il prestigio o la possibilità di gestire e far crescere altre persone? Una risposta che andrebbe data senza vergogna. Perché è lecito anche affermare che si è arrivati dove si è, per ragioni che nulla hanno a che fare con la volontà di coordinare un team.
C’è necessità e urgenza di una riflessione all’interno delle organizzazioni: non tanto “cosa significa essere manager?” quanto, piuttosto, “perché si diventa manager?”
Un po’ più di onestà intellettuale salverebbe molte aziende. E tutelerebbe il benessere psicologico di molte persone. Tanto di responsabili quanto di collaboratori.
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