Scoprire chi siamo fotografando, considerare quel gesto, il click della fotocamera divenuto oggi un irriflesso spasmo muscolare, un rituale, l’approdo di un viaggio nel quale, raffigurando il mondo, vediamo lentamente apparire, con stupore, il nostro volto.
Questi pensieri mi si affacciavano alla mente muovendomi tra la foresta di immagini che compongono la raffinata mostra di Hans Georg Berger The Learning Photographer (visibile fino al 16 luglio) alla galleria milanese 29 Arts In Progress, che ci regala la preziosa occasione di vedere le opere di questo atipico, straordinario personaggio per il quale la definizione di fotografo suona certamente riduttiva.
Hans Georg Berger, tedesco di Trier, la Treviri capitale dell’Impero Romano, ha studiato infatti filosofia e storia delle religioni, e ha lavorato, dagli anni Settanta, nell’ambito teatrale, prima in qualità di attore, sceneggiatore e regista nel collettivo di Monaco di Baviera Rote Rübe, successivamente, dal 1977 al 1983, come direttore dell’Internationales Festival des Freien Theaters in München e cofondatore della Münchener Biennale. La fotografia non è dunque la sua professione principale, è stata invece una scoperta portatagli dalle circostanze della vita e, in particolare, dall’incontro e lunga relazione, intellettuale e sentimentale, con Hervé Guibert (1955-91), personaggio chiave della cultura francese degli anni ’80, scrittore, pensatore, fotografo e autorevole critico per il prestigioso “Le Monde”, scomparso prematuramente a causa dell’Aids.
In mostra alcune immagini di Guibert evocano l’intenso sodalizio, durato una dozzina d’anni, nel quale i due si scambiavano vicendevolmente i ruoli di fotografo e fotografato, impugnando l’uno la camera dell’altro, in una collaborazione artistica basata sull’affinità spirituale, nella quale l’elemento decisivo non è l’autorialità dello scatto, poiché l’accento batte sul farsi immagine dell’intuizione visiva, sull’esplorazione dell’identità dell’altro, dove ritratto e autoritratto si intrecciano e rimandano vicendevolmente.
La fotografia di Berger non insegue la cronaca, né desidera raccontare i fatti, le sue non sono istantanee: se indugiamo per esempio sulla splendida foto “Consapevolezza”, è come se avvertissimo un leggero sussulto e quella mano, anziché posata sulla spalla nuda del giovane in riva al mare, lo fosse sulla nostra. Realizziamo solo guardando con attenzione che la mano non è del ragazzo, ma di una persona con più anni; del resto i volti sono tagliati fuori dall’inquadratura, che sembra nascondere le cose più che mostrarle, come quel piccolo brano di mare e scogli che intravvediamo sulla destra, mentre forse inconsciamente notiamo che la curva della spalla assomiglia a un’insenatura e ha sotterraneamente a che fare con il profilo della costa e le rocce affioranti dall’acqua. E cosa significa il titolo “Consapevolezza” dato dall’autore? Chi è consapevole? Il giovane rappresentato, l’altro interlocutore, presente e assente, o il fotografo, Berger stesso? La mano potrebbe forse essere la sua, il fotografo potrebbe essersi affacciato, come in punta di piedi, a sbirciare nella sua immagine senza rivelarsi. Sono tutti interrogativi che sorgono dalla foto e agiscono, lentamente e a diversi livelli, se ci si prende il tempo di osservarla, di sostare in sua compagnia: forse è la consapevolezza del rapporto che, attraverso la fotografia, ci collega con una zona più raccolta e vasta di noi stessi?
“Il mio obiettivo principale come fotografo non è raccogliere una documentazione visiva né reinterpretarla alla luce di una mia estetica. La mia curiosità e il mio bisogno d’imparare mi spingono piuttosto come prima cosa a instaurare un rapporto di fiducia e di collaborazione con le persone che credo possano aiutarmi a interpretare una certa realtà culturale con gli occhi di chi la vive in prima persona.”
Questa frase dell’artista, introducendoci alle immagini di apertura della mostra realizzate a Luang Prabang, capitale dell’antico regno del Laos, riconosciuta patrimonio dell’Unesco per l’inestimabile concentrazione di antichi templi buddisti, chiarisce perché il titolo definisca il nostro learning photographer, permettendoci di comprendere cosa sia per lui l’esercizio fotografico. “Dissi ad un giovane abate che, se mi avessero accettato come discepolo, sarei stato capace di documentare quella tradizione vivente, dall’inizio fino alla fine, attraverso la fotografia. Il mio obiettivo, aggiunsi, non era di carpire immagini da rivendere sul mercato, ma piuttosto di restituire una testimonianza di vita, capace di mettere in primo piano i monaci, attori principali della vita religiosa della città, e la ricchezza della loro pratica cerimoniale.”
Così è solo dopo soggiorni un anno dopo l’altro, durati ogni volta mesi, che si costruisce una sequenza come quella della sezione introduttiva dal titolo “La disciplina del bello”, composta di sette scatti realizzati tra il 1997 e il 1999 (tranne uno del 2005), attraverso i quali possiamo seguire la cerimonia di vestizione di un novizio che si appresta a diventare monaco, un rituale spirituale antico, intimo e segreto, cui possono assistere solo gli altri monaci e i famigliari del giovane che intraprende questa scelta di vita. Sono immagini essenziali, distillate, paiono giungere da un’epoca remota, eppure sono tramate di emozioni e stati d’animo che ci fanno vibrare come corde, grazie anche alla straordinaria qualità delle magnifiche stampe ai sali d’argento, frutto di una tecnica artigianale che ha permesso di risarcire alcuni danni arrecati ai negativi originali dal tempo e dall’usura. Assaporiamo così la tattilità delle stoffe semplici e preziose, le ombre silenziose che avvolgono con pudore i protagonisti, dei quali quasi sempre non vediamo il volto, perché non conta il singolo, ma il tramandarsi dell’antica pratica religiosa attraverso le generazioni, restando pura come i fiori offerti dal novizio con lunghe, affusolate mani di madonna botticelliana di fronte a un rilievo scolpito di storie buddiste in secondo piano.
C’è un’abissale diversità fra la pratica di Berger e quella di un fotoreporter, abituato ad andare dove accadono i fatti degni di cronaca, riprenderne i momenti più rilevanti, spedire il più velocemente possibile le foto alle agenzie, per riprendere l’aereo e raggiungere il successivo teatro di operazioni. Per Berger la fotografia si modella nel tempo, è una disciplina, nel duplice senso della parola che deriva appunto da discepolo e vale sia educazione, insegnamento, materia di studio, sia insieme di norme da osservare se si vuole fare parte della comunità che su queste si fonda. Le sue foto non sono frutto di uno sguardo frettoloso, esterno, giudicante, occidentale, nascono al contrario da “un rapporto di fiducia e di collaborazione con le persone che credo possano aiutarmi a interpretare una certa realtà culturale con gli occhi di chi la vive in prima persona.” Nel caso del monastero di Luang Prabang il fotografo fa vedere ai monaci le inquadrature prima di riprendere, mostra loro gli scatti, li discute, ascolta i pareri su di essi, scartando man mano quelli che i protagonisti avvertono non in sintonia con i significati di cui i gesti e le azioni sono portatori, e scatta ancora, fino a giungere alla fedeltà desiderata. La sua fotografia nasce nell’alveo di un’opzione esistenziale, da un’intima consuetudine con la comunità rappresentata, è una pratica partecipata, guidata da un senso di rispetto nei confronti di chi si trova nel mirino della macchina e da un’esigenza di responsabilità dell’artista, testimone di un’esperienza vissuta in prima persona.
Ma non solo in Oriente è possibile vivere certe esperienze, come mostrano le foto esposte nate nell’Eremo di Santa Caterina all’Isola d’Elba, un antico cenobio abbandonato che Berger negli anni ’70 riceve in comodato dal vescovo per sessant’anni, dedicandosi con passione al suo restauro, trasformandolo in un cenacolo intellettuale frequentato da artisti, scrittori, poeti e fotografi provenienti da tutto il mondo.
Tutte le immagini di Hans Georg Berger sono il picco visibile di una vasta grotta sotterranea che siamo chiamati a esplorare: due letti sfatti, dove lenzuola, coperte, cuscini in disordine suggeriscono, ma non raccontano la notte lì trascorsa (da chi? che rapporti tra i compagni di giaciglio? Il titolo “intimità svelata” non è forse menzognero?); un uomo di spalle su una scala affacciata su un sottostante, lontano paesaggio soffuso di foschia; il fiume Mekong sotto un sole sorgente, eppure avvolto in un’incredibile sospensione di luce o, infine, l’immagine con cui concludo: un’antica, spoglia stanza, una poltrona luigi xiv, un vecchio quadro e lo sgorgare dalla finestra di un potente ma ordinato fascio di luce.
L’artista non narra storie, semina suggestioni, evoca atmosfere, sussurra e, Baudelaire dei nostri giorni, ci invita al viaggio.
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