Il silenzio delle donne è stato al centro di una giornata di studi svoltasi nella Biblioteca Civica Ursino-Recupero di Catania, ospitata dal complesso del Monastero dei Benedettini, all’inizio di giugno. Madrina d’eccezione Dacia Maraini, appena uscita in libreria con Caro Pier Paolo per Neri Pozza, a un anno esatto da La scuola ci salverà.
L’occasione è stata fornita dalla presentazione di un volume prodotto dallo sforzo di Soroptimist International Club Catania, con il sostegno economico di Banca Agricola Popolare di Ragusa. Si tratta del risultato in cento pagine del laboratorio condotto da Marinella Fiume, scrittrice e finissima intellettuale siciliana, all’interno del corso di formazione per operatrici, organizzato dal centro antiviolenza Galatea con il patrocinio del Comune di San Gregorio di Catania.
“Il silenzio non è d’oro è un titolo che abbiamo voluto assegnare, provocatoriamente, a questo testo destinato a quelle donne tacite, troppe, che quotidianamente sono vittime di mille forme di violenza“, la prefazione di Lisania Giordano apre la raccolta, “attraverso i loro racconti, queste donne sono riuscite a superare la ritrosia dell’immoto, hanno riempito quegli inutili vuoti assordanti, per ‘essere’ ed esserci, per riprendersi la loro vita“, prosegue la presidente del club etneo.
Le tematiche sono quelle della violenza di genere, declinate attraverso le esperienze delle volontarie del centro Galatea e riscritte dalle future operatrici.
“La paura della violenza limita concretamente la vita di tante donne: non uscire da sola di sera, non tornare a casa da sola tardi, non viaggiare da sola – scrive Marinella Fiume – Tutta la nostra educazione sin da bambine è stata permeata dalla necessità di proteggerci. Tante di noi non sono neanche consapevoli di questo, non percepiscono la violenza, o “preferiscono” non pensare al fatto che, in quanto donne, hanno dovuto imparare a vivere in modo diverso dai maschi. Negare che una donna possa comprendere più di un uomo il dramma della violenza sessuale è negare tutto il portato e gli stereotipi educativi che subiscono le donne fin dalla prima infanzia“.
È allora una questione – anche – di percezione. La violenza è una limitazione, innanzitutto, e per prima cosa bisogna imparare a riconoscerla. Immediatamente dopo bisognerà imparare a dirla.
Quello del silenzio è argomento centrale, le parole come liberazione, come catarsi ma anche come rifiuto e resistenza civile. L’esempio ce lo dà sempre Dacia Maraini e la sua Marianna Ucria rimasta sordomuta dopo aver subito lo stupro, da parte dello zio che sarà poi costretta a sposare. Ricordata dalla scrittrice e poeta fiorentina che è certamente un faro tra i nomi della contemporaneità, la protagonista del romanzo uscito nel 1990 ricorre come presenza ferma, durante tutto il convegno. Una luce fissa, attorno alla quale si coagulano riflessioni e storie sempre attuali.
Elisabetta Zito, dal tavolo, legge un brano sul silenzio consegnatole da una delle sue recluse, lei dirige la casa circondariale di Piazza Lanza. Bruno Giordano, magistrato e direttore generale dell’Ispettorato nazionale del lavoro si sofferma su un’altra questione, spinosissima: quando le molestie avvengono in ufficio, a scuola, nelle fabbriche.
La violenza sessuale che diventa reato contro la persona, in Italia, solo nel 1996, mentre cessa di rappresentare un’onta per la morale pubblica è termometro di quanto questo Paese possa essere maschilista e la nostra società di indubbia impronta patriarcale. Ne ha scritto Fiume nel suo ultimo lavoro “Le ciociare di Capizzi“, sottolineando come le donne siano da sempre bottino di guerra. Ma quell’estremo abuso è anche in tempo di pace.
“Lo stupro è dissacrazione – spiega Dacia Maraini – è una violenza nel luogo sacro della nascita; è l’umiliazione profonda che travalica la dimensione fisica per un’altra dimensione, che è invece fortemente simbolica“.
Cosa serve, allora? “Serve che gli uomini imparino a sublimare, come le donne sanno già fare. La democrazia è fatta di sublimazione – continua Maraini – perché bisogna imparare che non c’è possesso che giustifichi un assassinio“. Parla di femminicidio, la scrittrice, e di quel neologismo dietro al quale si cela ogni anno quel massacro che le vittime ce le consegna a centinaia.
Raggiunta da Alley Oop, Veronica Sicari che è oggi una delle avvocate del centro Galatea ha partecipato al progetto con il racconto “Nella buona e nella cattiva sorte”:
“Il silenzio, la scelta di tacere esperienze traumatiche non è mai un atteggiamento neutro. Non denunciare, e ancor prima non raccontare, non condividere con altri l’esperienza traumatica e straniante di un’aggressione sessuale è però un atteggiamento che accomuna la stragrande maggioranza delle vittime di violenze sessuali. Non a caso, le statistiche dimostrano un basso numero di procedimenti penali per reati di questo tipo, in rapporto alle stime delle violenze verificatesi. Più del 30% delle donne italiane ha subito una forma di aggressione sessuale, nel corso della propria vita. Sono percentuali sconvolgenti”.
Va detto che parliamo di altro: “Lo stupro non ha nulla a che fare con il desiderio o l’erotismo. È un atto di potere, di sopraffazione, che mina gravemente l’autostima e la coscienza di chi lo vive. La tendenza delle vittime al silenzio, in questi casi, ha una matrice culturale. Tutto ciò che ha a che fare con la sessualità delle donne, violenze comprese, subisce un giudizio morale molto forte, retaggio di un’impostazione patriarcale tuttora presente nel nostro paese”, continua l’avvocata. E le conseguenze poi sono di tutta evidenza, persino nelle aule di giustizia: “ancora oggi le vittime vengono sottoposte all’odioso fenomeno della vittimizzazione secondaria, l’insieme di allusioni e insinuazioni che la violenza subita sia stata in qualche modo provocata da un comportamento ambiguo della donna. Le vittime tendono a denunciare più facilmente le violenze subite da sconosciuti, in contesti accidentali, e a tacere quelle vissute in contesti familiari e amicali, da persone a loro vicine. In questi casi il silenzio è l’unica alternativa all’umiliazione di non essere prese sul serio”.
Non ci sono principesse da svegliare da sonni profondissimi, insomma, non vogliamo che ce ne siano nemmeno da salvare. Non c’è più tempo per la retorica. Non vogliamo torri, vogliamo rispetto e smetterla di camminare guardandoci le spalle. C’è solo da imparare a reggersi, ognuna sulle proprie gambe. C’è però da pretendere che lo Stato si attivi: serve autonomia reddituale, serve un lavoro che garantisca una casa; alle donne, per venir fuori da storie di abusi, servono soldi e il coraggio di ricominciare che certamente a quel punto arriverà da solo.
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