Il dono del silenzio

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di Valentina Tatti Tonni

C’è un non so ché di anacronistico nel voler dare ad ogni costo la propria opinione, il proprio commento fino a sviscerarlo in ogni suo significato. Dico che è anacronistico perché il tempo in cui viviamo suggerirebbe nei suoi connotati più primitivi l’esatto contrario, ossia un’indifferenza più plateale e meno meschina. Eppure, nel momento in cui siamo chiamati, anche da forze oscure e astratte, a dire la nostra sul Tutto che ci circonda, allora ci sentiamo di poter cavalcare quell’onda, con un pizzico di egocentrismo intriso di falsa modestia. Poco importa se di quell’argomento non ne avevamo competenza o se, riferito a fatti che coinvolgono le persone, non provavamo empatia.

La parola batte il silenzio e trattiene tutto.

Le parole buttate nella centrifuga dei discorsi quotidiani rimbalzano tra una notizia e una confidenza e si privano spesso del rispetto che dovrebbero avere. Così di fronte all’immagine di una bomba che ha dilaniato persone con un loro corredo di storie e di esperienze, a noi dall’altra parte del foglio o dello schermo, non resta niente. Briciole di sensazionalismo sparato a caso mentre scoliamo la pasta o ci prepariamo per la prossima riunione. La speranza negata di un popolo o di una madre all’altro capo del mondo subisce una sospensione perché è solo ritratta ma non capita.

Le emozioni estreme fanno da vero collante espressivo, sia che si tratti del venditore di panini all’angolo della strada o dell’analista politico dell’ultimo minuto o di un conoscente perso di vista troppo presto, alla fine c’è sempre chi si sentirà obbligato a dire la propria, ad esacerbare il potere della comunicazione quasi per paura che il silenzio, tanto più intimo e garbato, non possa far fronte alla mole di informazioni che sono state condivise. Ciò, se da una parte rasserena lo spettatore, l’astante di nome e di fatto, dall’altra rende agitato il portavoce a cui non resta che soffrire della sua stessa complessità. Le parole si fortificano nei vuoti di senso che il committente gli dà incurante che il silenzio, ancor più amabile, possa invece riparare e curare le ferite aperte.

In “La morte è un giorno che vale la pena vivere” (ed. TEA, 2022) Ana Claudia Quintana Arantes racconta la sua esperienza di medico che ha scelto di accompagnare le persone nell’ultima fase della loro vita. E’ un libro che riscuote umanità, in questi tempi strani, e che mi ha fatto riflettere proprio sull’opportunità che tutti noi abbiamo di fronte a persone che ogni giorno imparano a rialzarsi oppure che sono costrette a cedere la propria esistenza.

Penso che sarebbe bello se invece del sale cui sono portatrici certe intenzioni parlate e buttate lì per commiserazione, scegliessimo come atto rivoluzionario del nostro sentire quello di rimanere in silenzio, magari porgendo una mano o uno sguardo attento. Penso che si potrebbe provare ad abbracciare l’esasperazione altrui e la sofferenza di chi intensamente cerca di sopravvivere, andando per tentativi senza libretto di istruzioni, a un qualsivoglia trauma (il cambio di una casa, una separazione, un licenziamento, un lutto, una guerra, etc.) e poi, senza giudicare, riuscire a prendercene cura proprio come si fa con chi non ha difese.

Perché ci vuole coraggio per rimanere in piedi, malgrado tutto.

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