Dimettersi dopo la pandemia: non una fuga ma una scelta di vita

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Un amico mi ha detto che lascerà l’azienda per cui lavora: una multinazionale dal brand rinomato, che lo strapaga per fare il lavoro per cui ha studiato, in un ruolo che gli dà notorietà, connessioni, reputazione. Lui comunque lascia, ha già deciso la data, e finalmente va. Ne accennava da qualche anno, ma le ragioni a favore dello stare pesavano sempre di più di quelle che lo spingevano ad andare: la sicurezza economica, la capacità produttiva e tutto quello che un buon biglietto da visita garantisce e promette. Dall’altra parte, un universo di incertezza: desideri, sogni, la paura di ritrovarsi con poco e niente e di scoprire che certe cose è meglio immaginarle che farle, che la realtà annegherà il tuo senso della possibilità. Un’idea di futuro è più facile e bella di un futuro che improvvisamente diventa presente, e inconsciamente lo sappiamo tutti abbastanza bene da scegliere continuamente il presente lasciando al futuro l’onere di spiegarne il perché.

Allora che cosa è successo: come mai adesso va?

E’ l’avvicinarsi dei 50 anni, sono i figli che crescono, è il mondo che gli sbatte in faccia sempre più forte e con sempre più urgenza il suo bisogno di lui? La prima cosa che mi racconta è che la sua azienda li vuole di nuovo tutti in ufficio: 4 giorni su 5. Come tutti noi, in questi due anni anche lui ha visto e sperimentato qualcosa di diverso e non si spiega perché dovrebbe tornare indietro. Se un motivo c’è, nessuno si è preoccupato di approfondirlo con lui: come se tornare indietro fosse la cosa naturale da fare. C’è stata un’interruzione del normale flusso degli eventi e ora c’è un reset: tutto come prima o quasi. Da spiegare, piuttosto, ci sarebbe perché dovremmo restare nel cambiamento, quando tutte le strutture che abbiamo creato, i processi, le regole, i mercati stessi, poggiano sul sistema precedente. Mi racconta:

“Però, nella città in cui vorrei stare, si vive meglio!”

Ci siamo adattati in questi anni a nuove abitudini, nuovi luoghi, nuove logistiche. All’inizio è stato anche molto difficile ma poi – siccome siamo esseri umani è questa è proprio la nostra forza – abbiamo imparato e abbiamo tratto il meglio da questo passaggio. Abbiamo capito cosa ci mancava, individuando, tra le tante cose che davamo per scontate, quelle che ci piacciono e ci servono del vecchio mondo del lavoro: quelle che vogliamo conservare, ritrovare, coltivare. Ma abbiamo intravisto anche tutte le altre: le sovrastrutture inutili, i tempi buttati, le piccole a grandi patologie organizzative in cui eravamo così immersi da non accorgerci che ci stavano bollendo vivi. Se quando sono scomparse all’improvviso non ci abbiamo fatto caso, adesso che ci chiedono di riprenderle così come le avevamo lasciate, improvvisamente le vediamo nella loro bruttezza e inutilità.

Non è necessario, pensiamo finalmente, vivere male per lavorare bene.

Non è sistemico e inevitabile dover scegliere tra vita e lavoro: quella stessa tecnologia che ci costringe a capo chino davanti a masse di informazioni in crescita costante, rompendo i confini tra ciò che è privato e ciò che non lo è, ci dà anche la libertà di fare delle scelte in più e di vivere meglio. Lo abbiamo potuto fare nell’emergenza, vogliamo sapere che potremo continuare a farlo nella normalità.
Per questo lui lascia: ha intravisto una vita diversa e non è disposto a non vederla più. Non ha un altro lavoro: gli occorre una mente libera anche solo per immaginare quel che verrà dopo, soprattutto se lo vuole diverso dal prima. Ma sa già di poterlo fare: come tutti noi, ha visto la sua vita cambiare nell’arco di pochi giorni a causa di una pandemia e questo gli ha insegnato che il cambiamento, semplicemente, accade.

“Se il cambiamento fosse meno spaventoso, se il rischio non apparisse così grande, molte più cose potrebbero essere vissute”

scriveva l’antropologa Mary Catherine Bateson nell’89, e oggi questa possibilità l’abbiamo sperimentata tutti. Il cambiamento ci ha travolti, accelerando la nostra conoscenza di noi stessi e obbligandoci a ricominciare ad imparare, e guardarlo da vicino ne ha rivelato il rischio ma anche la possibilità. Non è possibile tornare indietro: non stiamo rientrando nel vecchio mondo dopo una pausa lunga e imprevista. Abbiamo fatto un balzo di crescita, come i bambini, e ne siamo usciti diversi. E’ così che avviene il progresso: e buona fortuna a chi vorrà provare a ignorarlo. Perché le persone hanno guadagnato un nuovo grado di libertà, che oggi fa meno paura di ieri e le porterà a fare delle scelte nuove.

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