*Pubblichiamo la testimonianza di Tatsiana Khamliuk, video maker bielorussa e da poco tornata dalla Romania dove ha supportato i volontari nell’accoglienza dei profughi ucraini.
Ucraina, Ucraina.. questa parola mi gira in testa da giorni. Ce l’ho in mente dal 24 febbraio, la data che ha cambiato tutto. In realtà ricordo che già qualche giorno prima scambiavo notizie e impressioni con parenti e amici. “Ci sarà o non ci sarà la guerra?” continuavo a pensare. Io vivo da molti anni in Italia, ma sono nata in Bielorussia e ho tanti amici ucraini. Sentivo la loro voce attraverso il telefono e cercavo di tranquillizzarli: “ma che guerra? Figuriamoci… ma cosa dite?”. Era il 23 febbraio e sono andata a dormire convinta di ciò che dicevo. La mattina del 24 ho sentito vibrare il telefono sul comodino prima di aprire gli occhi. Era l’alba e ho afferrato il cellulare: era un messaggio dell’amico ucraino che avevo rassicurato il giorno prima. C’erano solo scritte due parole: “è iniziato”. Mi sono piegata sul cellulare per sfogliare le notizie e mandare messaggi.
Scrivevo in modo caotico a tutti quelli che conosco in Ucraina: “cosa posso fare per voi?” ripetevo in continuazione. “Nulla – mi rispondevano – in questo questo non puoi fare nulla”. Con il passare dei giorni mi sentivo inquieta, non potevo stare ferma. Un ragazzo un giorno mi ha parlato del lavoro dei volontari a Siret, città di confine tra Romania e Ucraina. Due ore dopo avevo un biglietto d’aereo.
Non ero mai stata in Romania e non conoscevo la lingua. Non sapevo cosa aspettarmi, ma sapevo di fare la cosa gusta. Il volo era diretto a Suceava, città nel nord est del Paese. Appena passati i controlli ho visto un ragazzo con il telefono in mano: leggeva notizie sulla guerra e mi sono avvicinata. Mi ha detto di chiamarsi Igor e che era venuto in Italia una settimana prima dell’invasione russa. Alla dogana di Siret lo aspettavano la moglie e il figlio. Mentre parlavo con Igor si è avvicinato un altro ragazzo, Pavel, dicendomi che anche lui sarebbe andato a Siret: al confine avrebbe visto moglie e figlio che però all’inizio non volevano lasciare il Paese a causa dei genitori anziani. “Se ti chiedessero di restare in Ucraina e combattere?” gli ho chiesto. “Se devo farlo per il Paese, lo farò” mi risposto senza esitare.
L’arrivo in Romania
Arrivata all’areoporto ho preso un bus per il centro di Suceava. Non sono andata direttamente alla dogana, ma sono passata prima all’hotel Mandachi. Fuori nel parcheggio c’erano molte auto con targhe ucraine e mi sono avvicinata all’entrata. Avevo sentito la storia di questo businessman che aveva messo a disposizione il suo hotel 5 stelle per i profughi, ma quando sono arrivata alla reception non credevo ai miei occhi. A terra c’erano un centinaio di materassi, se non di più: donne, bambini, anziani si riposavano a terra uno a fianco all’altro circondati dalle poche cose che erano riusciti a portare da casa. Sono uscita un attimo per prendere aria; non potevo guardare tutto senza lacrime. Non avrei mai pensato nella mia vita vedere una cosa simile… ecco cosa significa la guerra.
Una persona mi si è avvicinata chiedendomi se volevo del caffé. Tutto era gratis per chiunque, volontari e profughi. É lì che ho conosciuto Daniel, un volontario rumeno che aveva lavorato per anni in Piemonte e che conosce perfettamente la lingua italiana. Gli ho spiegato che sono una videomaker bielorussa e che sono venuta da Milano per aiutare. Daniel subito mi ha chiesto se ero disposta a collaborare dato che parlo russo e tanti profughi ucraini non conoscono l’inglese. Mi sentivo felice, finalmente potevo essere utile. Insieme ci siamo avviati verso la dogana di Siret.
Mentre stavamo andando in macchina lui mi ha raccontato che è padre di 3 figli. Fin dal primo giorno che è scoppiata la guerra si sono preparati ad accogliere i profughi. Hanno allestito le tende e centinaia di volontari ogni giorno si danno il cambio per accogliere la gente che riesce ad attraversare la dogana.
Una volta arrivati in dogana ho fatto un sospiro di sollievo: non mancava niente. C’erano le tende con il cibo, i ragazzi che portavano il tè caldo a tutti… e poi c’erano decine di autobus che portavano le persone verso punti di prima accoglienza. Dalla dogana sbucavano fuori tantissime donne e bambini. Gli unici uomini erano per lo più anziani. I giovani non possono lasciare il paese perché potenzialmente tutti arruolabili. Siamo entrati nella tenda di Fight for Freedom, un’associazione di volontari che si occupa di aiutare i profughi. Dentro c’erano tante donne con i bambini infreddoliti, alcuni erano traumatizzati da un lungo viaggio. Cercavo informazioni quando una volontaria mi ha chiesto se parlavo russo: “Io? Certo!” le ho risposto.
Ho iniziato a tradurre tutto: le donne mi chiedevano come raggiungere le città più vicine, come trovare alloggio o una semplice sim card. Non si faceva a tempo a riempire un bus verso Suceava, che la tenda si riempiva di nuovo. Era un flusso continuo. Daniel mi ha raccontato che stavano lavorando così già da più di una settimana. Dopo qualche ora ho iniziato ad avere mal di testa; c’era sempre più gente.
Adolescenti fra paura e voglia di aiutare
“Perché sei qui?” mi ha chiesto in russo un ragazzo adolescente. L’ho guardato e ho pensato che poteva avere 15 anni, l’età di mio figlio. Gli ho spiegato che sono bielorussa, ma vivo in Italia da tanto e sono arrivata lì per dare una mano. Quando mi ha detto di avere davvero 15 anni ho pensato che nessuno si sarebbe dovuto trovare lì. Il ragazzo si chiama Matvej ed è partito da Kiev con mamma e sorella. A casa hanno lasciato il padre. Matvej mi ha chiesto subito come poter aiutare anche lui, ma gli ho risposto che la cosa più importante da fare era prendersi cura di chi era con lui. Subito dopo abbiamo trovato un autobus per lui e la sua famiglia, così li ho guardati andare via.
Arrivata la sera sono andata via. Avevo un albergo prenotato, a non mi andava di stare sola. Così Daniel si è offerto di ospitarmi a casa sua. Quando mi ha portato da lui ho subito conosciuto la sorella, anche lei molto preoccupata per la situazione. Ho mangiato del cibo fatto in casa e poi sono crollata a letto. Il mio primo giorno in Romania era finito.
Il giorno dopo sono tornata al Mandachi e ho conosciuto Alessia: ha soli 15 anni era una delle volontarie più giovani. Al Mandachi lei doveva aiutare nella distribuzione del cibo. “Da quanto sei qui?” Le ho chiesto. E lei, in un perfetto italiano mi ha risposto: “Dal primo giorno”. Anche il giorno prima avevo visto tantissimi volontari giovanissimi, come Sacha, un ragazzo ucraino in attesa di partire verso le Germania: “E’ stata una mia decisione perché fino a ieri ero parte delle persone che venivano qui in ricerca d’aiuto” mi dice. “Anche se tra poco vado – continua – credo che sarò utile per gli altri. Farò un’esperienza importante che non potrò mai scordare nella mia vita”.
Il bisogno di essere ascoltati
Neanche io scorderò mai quei giorni. Al Mandachi avevo paura di disturbare le persone chiedendo la loro storia, ma ho scoperto ben presto che quasi tutti volevano parlare e sfogarsi. Mi hanno fatto vedere le loro foto, i messaggi ai parenti. Ho pianto e abbiamo pianto insieme. Tanti volevano solo essere ascoltati, forse per sentirsi meno soli.
Una donna mi ha confidato di essere già fuggita dalla guerra 28 anni fa: “A 60 anni sono diventata profuga per due volte – i racconta con gli occhi rigati dalle lacrime – E tutto per colpa di un solo uomo… Siamo povera gente noi , Perché ci è capitato tutto questo?”. Shurena, così si chiama la donna, era già fuggita dalla Georgia nel 1993 a causa della guerra civile, per poi ritrovarsi nella stessa situazione dopo quasi 30 anni.
Ho conosciuto anche una famiglia originaria dell’Azejbardzan che viveva a Kharkov. Per loro era una città multietnica dove non hanno mai avuto la discriminazione nonostante la lingua russa. A loro ho fatto una promessa: una volta finita la guerra, ci saremo rivisti tutti proprio a Kharkov. Mi hanno guardato con tristezza: la città ormai era distrutta dai bombardamenti e nessuno sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto per tornare indietro.
Ho continuato a fare da interprete per tutta la sera. Ho dormito poco quella notte, ma mi sono sentita utile. Il giorno dopo, arrivato il tempo di partire, ho salutato tutti con la consapevolezza che sarei voluta ritornare a breve. All’aeroporto di Bergamo sono scoppiata a piangere. Nella mia testa continuavano a suonare le parole della donna Abkaza che per tutta la sua vita non ha fatto altro che scappare dalla guerra.
“Siamo povera gente noi, perché ci è capitato tutto questo?”