Lavoro, dove si nascondono i talenti? Nel buio di una cultura che ancora non c’è

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Eliminare gli unconscious bias (stereotipi inconsci) per far emergere il talento: questa sembra essere la direzione preferita per rimuovere i recinti che ancora impediscono al mondo del lavoro di avvantaggiarsi di tutte le forze in campo. Nel parla Tomas Chamorro-Premuzic, lo psicologo autore di “Perché tanti uomini incompetenti diventano leader? (e come porvi rimedio)” in un recente articolo su Forbes, in cui fa una disamina tagliente delle cinque strategie più in uso nei cosiddetti “interventi di genere”, basandosi sulle ricerche che ne hanno valutato le premesse scientifiche e i risultati.

Bocciato il “Lean in” di Sheryl Sandberg, che sembra buttare la croce addosso alle donne – discriminate e pure colpevolizzate di essere le prime ad “andarsene prima di andare via”; promosse le quote rosa, che secondo Chamorro hanno il vantaggio di arginare le straripanti, implicite e contrapposte quote azzurre; promosse anche le alleanze tra uomini e donne, in cui uomini capaci non hanno nulla da temere da donne altrettanto capaci. Ma la prima voce della lista dell’autore è dedicata alla formazione per eliminare gli unconscious bias, su cui non va tanto per il sottile: varie ricerche dimostrano infatti che lo strumento alla base di questa metodologia, il Test di Associazioni Implicite, non è né affidabile né accurato, e a questo Chamorro aggiunge che le persone sono spesso ben consce dei propri bias e se li tengono stretti, ed è sull’etica dei comportamenti che si potrebbe invece agire. Infine conclude:

“Per fortuna, quel che molte organizzazioni chiamano “training sugli unsconscious bias” sono solo lezioni di psicologia di base: un formatore che fa vedere delle slide sulla psicologia del pregiudizio e i bias cognitivi. E’ sicuramente meno pericoloso, anche se mancano ancora evidenze dei risultati e del ritorno sull’investimento”.

Chi conosce il modo in cui funziona la mente umana sa bene, infatti, che i bias inconsci non si possono rimuovere: anzi, che farlo sarebbe un bel guaio, perché la nostra mente senza bias non comprende la realtà e va nel caos. I bias, o stereotipi, hanno il vantaggio di semplificare ciò che ci succede e dargli un significato, proprio associando un’informazione nuova a quelle esistenti, e lo fanno seguendo regole che sono lì perché si sono dimostrate efficaci in passato.

I bias sulle donne, per dirne uno, non sono nella mente del singolo perché inconsciamente annidati a livello individuale, ma perché i segnali presenti nel nostro quotidiano rafforzano l’efficacia di continuare a vedere le cose seguendo una cultura che ci influenza da millenni. Sono lì, insomma, perché in qualche modo funzionano ancora. Che cosa potrebbe quindi indebolirli? Non il proposito di rimuoverli, lasciando un vuoto laddove si creava una connessione utile tra concetti, ma quello di fornirgli nuove informazioni rispetto a cui si rivelino inefficaci. Arricchire, insomma, le evidenze disponibili, con un quadro più ampio, che rompa lo schema incompleto in cui quel bias si dimostra utile.

Ed ecco il passaggio al tema della meritocrazia, l’ultimo della lista di Chamorro. Qui lui prevede che, se le scelte fossero davvero sulla base del merito, non sarebbe strano ritrovarsi a dover avere delle quote azzurre. D’altronde, nel suo libro lo prova con i dati: il talento femminile sembra essere più adatto al mondo del lavoro contemporaneo. Allora che cosa ci rende ciechi ai talenti diversi: quali sono i bias che ci impediscono di mettere in campo tutte le forze che servono, e servono sempre più “disperatamente” visto che parliamo di ingenti quantità di quelle “soft skills” che fanno la differenza nella capacità manageriale?

Provando per un momento a togliere il “fattore donna” da questo ragionamento: quanti e quali talenti si sta perdendo il mondo del lavoro? E, soprattutto, perché?

Viene in mente la storiella dell’uomo che una notte cercava le chiavi della propria auto sotto un lampione: non le aveva perse lì, ma le cercava lì perché lì c’era luce. Ecco, la nostra ricerca del talento sembra essere un po’ così: si tratterebbe di trovare qualcosa di radicalmente nuovo, cercandolo e misurandolo con parametri nuovi, muovendosi anche al buio per un po’. Ma noi continuiamo a stare sotto il lampione delle vecchie metriche e definizioni perché sono quelle note. Non sono quindi le persone a dover rimuovere i propri bias, ma le organizzazioni, dandosi l’obiettivo di tracciare una mappa completamente nuova (ignota, destinata a farci sperimentare nuovi errori e imprevisti) – operazione ostacolata oggi soprattutto dalla mappa che c’è già e dalla sensazione che, in fondo, funzioni ancora.

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  • Luigi |

    Molto interessante questo articolo. io dopo anni ho provato a rispondere a questa domanda ed il mio risultato ha dato queste due risposte.
    1) I capi cioè i veri manager o CEO non vogliono intorno troppi collaboratori intelligenti anzi meno efficienti sono più ubbidiscono al loro credo.
    2) I manager di seconda o terza fscia non essendo troppo intelligenti servono a coprire i pasticci che compiono ai piani alti onde evitare di contestare quanto svolto.
    Un vecchio adagio soleva dire “attacca il cappello dove più ti conviene” e vedrai che i problemi almeno quelli lavorativi cessano di esistere. Ma, terminando non lamentiamoci se poi le aziende in Italia non producono ricchezza o meglio ancor prima della ricchezza efficienza nei confronti dei propri collaboratori e nei confronti dei clienti.

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