Perché torneremo a lavorare come dopo una guerra (o un congedo di maternità)

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Toglieremo le mascherine all’aperto (dall’11 febbraio), poi forse anche al chiuso (dal 31 marzo), ricominceremo ad andare in ufficio e a cena fuori, forse ricominceremo anche a organizzare delle feste, a un certo punto tornerà a sembrarci normale toccarci tra di noi, anche se forse non torneremo mai a baciare qualcuno sulle guance se non è un amico…

Tornerà, insomma, la vita a essere come lo conoscevamo, anche se la filigrana sarà molto più digitale di prima: l’immobilità a cui ci ha costretti la pandemia ha aperto la strada a torrenti di dati che ci hanno mantenuti “nel mondo” in sicurezza, dall’intrattenimento al lavoro, con noi come ricettori ed emittenti a nostra volta, seduti su sedie sempre più ergonomiche, sempre più simili a plance di comando di astronavi immobili nella galassia.

Eppure ci siamo spostati, non siamo più quelli che eravamo. Succede con le transizioni, e infatti sa interpretarle meglio chi ne ha conosciute altre, come la veterana di guerra Adria Horn recentemente intervistata da McKinsey, e come saprebbe fare anche chi è stato in congedo per malattia, per avere un figlio o per una missione speciale. Riconosce nell’esperienza di chi tornerà dalla pandemia la propria, nelle cinque volte in cui è andata e tornata da una guerra, Adria. Ogni volta avrebbe dovuto essere una festa (si torna a casa!) e invece era una crisi. Le cose a casa non erano mai come le ricordava, e sembravano tanti piccoli tradimenti. Era lei stessa a non “entrarci” più, a essere fuori misura per un mondo che era cambiato senza di lei. E intanto lei era cambiata a sua volta, da un’altra parte. Sì, così si sentono anche le donne che tornano al lavoro dopo il congedo di maternità: in un ufficio che le accoglie “come se niente fosse accaduto” per non penalizzarle, e che in questo modo ne amplifica il senso di straniamento.

I militari lo sanno e le missioni di guerra sono riconosciute come eventi potenzialmente traumatici. Vi sono protocolli che accompagnano i veterani al rientro, preparando loro e i loro familiari. Non è mai abbastanza, ma il velo sulla dimensione del cambiamento e il suo impatto sulla psiche di chi lo vive è rotto, quantomeno se ne parla. Questo finora ha riguardato, per esempio, i quasi due milioni di americani che dal 2001 sono stati mandati in Iraq e Afghanistan e le 200mila donne che in media ogni anno rientrano al lavoro dalla maternità in Italia: ma adesso, da questa missione speciale di confronto con la pandemia, a “tornare” siamo miliardi. E, se il paragone sembra ardito, è utile sapere che la stessa veterana cita la sindrome del “non dovremmo sentirci così, le cose importanti sono altre” come un problema che ci impedisce di elaborare le transizioni in modo sano e costruttivo.

C’è dunque qualcosa che possiamo imparare da chi questo senso di “ritorno” lo ha già gestito?

La veterana Adria Horn si è fatta avanti proprio per questo, e allo stesso modo potrebbe aiutarci l’esperienza di chi ha vissuto altre transizioni: non partiamo da zero, la nostra specie conosce e gestisce il cambiamento (pur non amandolo) da centinaia di migliaia di anni, sopravvive infatti chi sa farlo meglio degli altri e noi siamo la punta avanzata di quell’evoluzione. Ecco dunque le “tre lezioni” di Adria, da prendere come punto di partenza nella loro semplicità – perché le cose più ovvie sono quelle che più facilmente restano nascoste e non dette, diventando barriere insormontabili ad una consapevolezza che invece potrebbe salvarci.

1) I dipendenti sono confusi – come è giusto che sia.
Non è stata una sola missione di guerra, ma molte, l’esperienza del covid. Dal primo lock down al susseguirsi di regole, incertezze, novità, che hanno cambiato le nostre vite spaziando da elementi di dettaglio (a che ora si può andare a cena fuori) ad abitudini su cui fondavamo il nostro senso di sicurezza (poter vedere le persone in faccia per capire che cosa pensano). Allo stesso modo, anche da ora in avanti non ci sarà un solo grande ritorno: non ci sarà una data da festeggiare ma tante altre microfratture tra un prima e un dopo, quasi irriconoscibili, rispetto alle quali oltre a sentirci confusi ci sentiremo in colpa, come i soldati che sanno che dovrebbero essere felici di tornare a casa e invece…

2) Sfide senza precedenti portano a decisioni senza precedenti.
Interrotta la routine che ci stava bollendo come la rana dell’esperimento raccontato da Noam Chomsky – anche questo succede con le transizioni – non è possibile tornare in una pentola che ora evidentemente scotta. La sensazione di dover rivalutare tutto, di sentirci autorizzati a farlo dalle circostanze, è forte perché ci viene da dentro. Le transizioni cambiano le condizioni che rendevano accettabili soluzioni eternamente imperfette e provvisorie, e ci mettono davanti alla possibilità di fare cose nuove, in modo diverso. Marcando un evento, ci restituiscono quasi con violenza alla percezione di un tempo che scorre e alla nostra presenza attiva in esso: possiamo ricominciare a fare delle scelte. Che paura, che possibilità.

3) Che cosa possono fare le aziende? Adattarsi, accettare e… abbracciare.
Meno male che a dirlo è una veterana, che però per spiegarlo cita la propria esperienza materna. Che cosa fare di bambini talentuosi ed emotivi, nel momento della crisi? Lei, racconta, rispondeva con durezza, faceva muro contro muro. Potete immaginare il risultato. Poi la lettura di un libro l’ha spinta a provare una strategia diversa: quando sua figlia partiva con urla e strepiti, lei ha iniziato ad abbracciarla forte. Se non si riesce ad abbracciarli – perché spesso proprio non ci si riesce – basta restare lì tranquilli, invadere la stanza con un approccio zen. Che cosa vuol dire? Intanto che è proprio così: possiamo cercare risposte a eventi nuovi da eventi noti, da ruoli che ricopriamo altrove in cui potremmo aver già imparato come gestire noi stessi per adattarci (che vuol dire apprendere).

E poi, che in una relazione si è sempre in due, e questa crisi la stiamo attraversano insieme, persone e aziende (fatte di persone). E forse l’abbraccio – simbolo del riconoscimento di un cambiamento che ci ha travolti, riaccesi, sfiancati e messi in crisi – serve a entrambi.

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  • Cynthia Petrangeli |

    Complimenti davvero. Articolo bellissimo, contenuti coraggiosi e soprattutto fuori da qualunque ordinaria analisi letta da me finora.

  • Gloria |

    La pandemia ci ha messo a dura prova a l8vello personale,sociale, economico, solo l’ambiente ne ha tratto profitto.Nonostante i danni causati,però, ci ha fatto scoprire nuove m9dalità lavorative che in alcune zone erano già realta evidenziando grandi vsntaggi.Lo smartworking per esempio o un lavoro integrato tra lo smart working e il lavoro in presenza può contribuire a risolvere non solo problemi familiari ma anche legati all’inquinamento per la riduzione di macchine in circolazione ad esempio.Sappiamo trarre spunto,quindi, anche benefici da ciò che la pandemia co ha cosyretto a dover fare,abbandoniamo i vecchi schemi e le vecchie modalità di lavoro,volgiamoci al futuro e sleghiamici dagli eventuali interessi che vuole la persona in presenza al lavoro

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