Gender gap: se pensi che non esista, in realtà stai contribuendo a perpetrarlo

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Prof, che male c’è ad essere ottimisti? Io credo che la discriminazione di genere sia un problema evidente nei dati, e quindi rilevante ai nostri giorni, solo perché perdurano nel tempo gli effetti della discriminazione passata, ma oggi come oggi i manager, come potrei essere io, conoscono la legge e non commettono più l’errore di sottovalutare le donne in quanto tali, perlomeno nei settori dove la presenza femminile è ormai paritaria.

Un buon manager deve essere consapevole del fatto che la discriminazione di genere non è un problema risolto. Questa consapevolezza è parte della soluzione del problema, mentre chi crede che nel contesto in cui opera non ci sia più discriminazione, anche se in buona fede, è parte del problema.

Le ricerche sugli stereotipi[1] evidenziano infatti che proprio gli individui che si sentono più sicuri di lavorare in un ambiente privo di discriminazione, e che sono più fiduciosi della loro capacità di essere obiettivi in ogni circostanza, risultano invece, alla prova dei fatti, i più inclini a esprimere valutazioni condizionate dai pregiudizi, e quindi i più responsabili di quella disparità di trattamento di cui negano l’esistenza.

Non sono poche le attività, un tempo esercitate prevalentemente dagli uomini, che adesso occupano una rappresentanza più o meno paritaria di entrambi i generi, e l’evidenza dei progressi compiuti in questo campo può indurre molte persone a ritenere, in buona fede, che l’uguaglianza di genere sia un risultato ormai consolidato, e che le donne che hanno superato le barriere all’ingresso del mondo del lavoro e il soffitto di cristallo siano attualmente valutate e remunerate alla pari dei loro colleghi maschi per un lavoro uguale o di pari valore.

Invece, numerose ricerche[2] dimostrano che il pregiudizio nei confronti delle donne è ancora un problema, e paradossalmente sono proprio le persone più “ottimiste” nella percezione dei progressi della manodopera femminile che ne ostacolano la soluzione. Lo dimostra una recente ricerca condotta nel Regno Unito sul condizionamento degli stereotipi nell’ambito della professione veterinaria.[3] L’esperimento mette a confronto le valutazioni dei dipendenti di due gruppi di manager: al primo gruppo appartengono coloro che hanno dichiarato di essere d’accordo con la seguente affermazione: “la discriminazione contro le donne nella professione veterinaria non è più un problema” (44,5% dei dirigenti, di cui 61,1% uomini); al secondo gruppo appartengono coloro che hanno dichiarato di essere d’accordo con la seguente affermazione: “le carriere delle veterinarie sono ancora influenzate da pregiudizi e discriminazioni” (40,6% dei dirigenti, di cui 23,3% uomini).

Ai partecipanti di entrambi i gruppi è stato chiesto di valutare la professionalità dei dipendenti solo in base alle competenze desumibili, per ciascuno di loro, da un curriculum che (all’insaputa dei valutatori) conteneva informazioni identiche, cioè rappresentava le stesse caratteristiche produttive, ma era abbinato alternativamente ad un nome maschile o ad un nome femminile (“Mark” o “Elizabeth”). Ai valutatori è stato chiesto, inoltre, di indicare la retribuzione da attribuire, in base alle caratteristiche di ciascuno, agli individui che avevano valutato. Questa retribuzione rappresenta nell’esperimento l’indicatore monetario delle competenze e del merito delle persone valutate; le caratteristiche maschili e femminili erano identiche perché desunte da un identico curriculum, ma erano etichettate con un nome di genere diverso.

I risultati dell’esperimento dimostrano che solo gli individui del primo gruppo, cioè quelli che ritenevano che la discriminazione non fosse più un problema, hanno sottostimato significativamente[4] le competenze delle veterinarie rispetto a quelle dei veterinari (Figura 1) e hanno indicato per le donne una retribuzione oraria dell’8% minore rispetto a quella degli uomini, contribuendo in tal modo alla disparità di trattamento di cui avevano negato l’esistenza nella prima fase dell’esperimento.

La conclusione è che l’ottimismo di coloro che credono che la discriminazione non sia più un problema non aiuta a raggiungere la parità di genere, ma spinge proprio nella direzione opposta. Per contro, ribadire che la disparità di trattamento non è un problema risolto, ma è un fenomeno sistematicamente osservabile anche ai nostri giorni, potrà risultare noioso per qualcuno, ma ha la sua ragione d’essere, dati alla mano: nella lotta agli stereotipi, la consapevolezza aiuta.

Figura 1 – Valutazione delle competenze dei dipendenti nella professione veterinaria (U.K. 2020)

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[1] Ad esempio Uhlmann e Cohen (2007).

[2] Ad esempio Koch, D’Mello e Sackett (2015).

[3] Nel Regno Unito la professione veterinaria è praticata da donne e uomini in egual misura, più o meno come in Italia, dove le veterinarie sono attualmente il 51,8% del totale degli addetti.

[4] La sottostima delle competenze maschili visibile nel grafico non è invece statisticamente significativa.

  • Nicola Fiorillo |

    Il grafico è fuorviante perché parte da 3,5 anziché da 0, facendo così apparire un differenza del 12% come se fosse del 50%

  • gloria |

    il mobbing sul lavoro, la discriminazione di genere impera soprattutto su persone che non sono protette e tutelate senza tener conto che quando una donna oltre ad non essere protetta svolge attività che normalmente dovrebbe svolgere, nell’opinione comune, un uomo. Siamo alle soglie del 2030 e ragioniammo , perlopiù, con una logic del 1915-18.Per fortuna esistono poche, ma esistono belle realtà in cui non solo c’è collaborazione nel mondo del lavoro e la discriminazione è solo un ricordo.Purtroppo c’è omertà dal Nord al Sud e realtà e dinamiche interconnesse e sostenute da deyterminate logiche che non favoriscono l’evoluzione e il progresso, dove tutto si ferma e diventa stagnante.E dipendenti che potrebbero aspirare al più commentano rassegnati: le ruote piccole fanno girare quelle grandi.

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