All’inizio è stata l’ansia. O meglio, uno stato ansioso, dovuto alle incertezze del futuro e all’incontro con il virus Covid-19. Ma se ci pensiamo, inizialmente c’era anche molta motivazione e impegno, sia dal punto di vista lavorativo che nella gestione delle quotidianità relazionali e familiari. Dallo scorso inverno, tuttavia, l’esaurimento latente delle energie ha cominciato a prendere forma. La lunghezza della pandemia e l’effetto yo-yo delle buone notizie seguite da quelle cattive, hanno logorato anche le migliori intenzioni e si sono aggiunte come fattori di stress a quelli già presenti.
Il Guardian segnala che il 60% del campione interrogato nel Regno Unito afferma di avere difficoltà a mantenere un atteggiamento positivo nel quotidiano, rispetto a prima della pandemia, e cresce il numero di persone che riferiscono di sentirsi esauste e incapaci di far fronte a un periodo di stress prolungato. Nello studio di alcuni ricercatori tra Italia e Usa “Burnout Status of Italian Healthcare Workers during the First COVID-19 Pandemic Peak Period”, si afferma che la pandemia ha gravato sullo straordinario stress psicologico del personale sanitario. In una parte considerevole del campione si sono riscontrati i livelli clinici di depressione (57,9%), ansia (65,2%), sintomi post-traumatici (55%) e burnout (25,61%).
Il burnout sul lavoro
Di sicuro lavorare in prima linea come accade al personale medico, è causa di questo disagio, infatti la sindrome del burnout nasce proprio nell’ambito delle professioni sanitarie e assistenziali. Oggi viene però riconosciuta anche ad altre a professioni con alte condizioni stressanti e pressanti, come ad esempio le posizioni di responsabilità. In questi mesi però stiamo parlando di burnout anche fuori da tali contesti. Perchè? Secondo la dottoressa Biancamaria Cavallini, customer success manager di Mindwork, “Oggi tutte le professioni sono ad alto impatto emotivo, perché è aumentato il carico relazionale, non solo se e quando sono professioni a rapporto diretto con l’utenza, ma anche perché è cambiato il modo di lavorare. Si richiede, anche implicitamente, di essere costantemente connessi, sinergici, di collaborare, e ciò comporta un carico emotivo in professioni che tradizionalmente non avremmo considerato a rischio burnout”.
Per quanto la terminologia sia forse a rischio di abuso in questo momento, va detto che la sindrome da burnout non è una semplice stanchezza, ma comporta un disagio psicologico che può toccare tangenzialmente spettri depressivi o ansiosi, come continua a spiegare Cavallini: “Non è un disturbo semplice da riconoscere e da prendere in carico subito, è complesso e spesso subdolo. Si esprime in un’idea di prosciugamento, di perdita di interesse, che porta di conseguenza a sperimentare l’inefficacia, il distacco emotivo, anche fuori dal lavoro. Il burnout può essere accompagnato da vissuti depressivi, ovvero disagi legati alla sfera depressiva, anche se non come malattia conclamata. Talvolta utilizziamo la parola burnout un po’ a sproposito, come la parola ansia: c’è ancora poca consapevolezza sui vissuti psicologici. Un vissuto d’ansia è diverso da un disturbo d’ansia. Ma su entrambi va posta attenzione, vanno riconosciuti e bisogna parlarne. Il burnout è un esaurimento emotivo che non è conclamato subito, richiede un tempo fisiologico per maturare”.
Anche per questo le aziende oggi stanno sviluppando una maggiore consapevolezza e attenzione nel gestire il benessere psicologico dei propri dipendenti. “Il Covid è stato un acceleratore per molti aspetti, e anche dal punto di vista della salute psicologica ha offerto la possibilità di una maggiore attenzione. Ha portato molto malessere psicologico, ma ha dato l’occasione di portare alla superficie la questione del benessere psicologico nei luoghi di lavoro” sottolinea Cavallini.
Ma in questo momento in cui gli spazi lavorativi sono deflagrati e costituiscono un luogo mentale e meno fisico, come possiamo salvaguardarci dal rischio di essere sopraffatti? Conclude Cavallini: “Stiamo vivendo una vita più ibrida e fluida, dove mancano soprattutto i riti di passaggio. Anche semplicemente uscire di casa, arrivare in ufficio, prendere il caffè al solito bar, sono momenti di decompressione tra uno stato e l’altro. Tutto questo manca con il lavoro da remoto e i confini si sono fatti confusi e fumosi. Alcuni hanno avuto le risorse sufficienti per gestire la situazione e fare ordine, altri no. Molte delle persone che si sono rivolte a noi hanno portato vissuti legati ai nuovi stili di vita e difficoltà a fare spazio mentalmente, sovraccarico. Su questo si può lavorare”. È importante che i luoghi di lavoro siano disposti a normalizzare il disagio psicologico affinché possa emergere e possa trovare uno spazio di ascolto e di aiuto.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.