A valle della pubblicazione del Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum, leggere il tema delle asimmetrie di genere e della difficile affermazione della leadership femminile nelle imprese attraverso la lente dell’evoluzione delle organizzazioni, della società e della demografia – cosi’ come fa il recente Rapporto dell’Osservatorio mercato del lavoro e competenze manageriali di 4.Manager – offre una prospettiva molto interessante.
Innanzitutto, perché permette di vedere la realtà nel suo insieme, non in modo unilaterale, ma interconnesso, non in modo statico ma in continuo movimento. E scoprire così aspetti trascurati, che possono completare la nostra visione – e, di conseguenza, modificare l’azione – in modo significativo. Un esempio? Dal punto di vista demografico, dovremmo tutti sapere che la pandemia è arrivata a ridosso di massicci pensionamenti dei baby boomer. Migliaia di posizioni dirigenziali si libereranno nei prossimi 18/24 mesi: un’occasione unica per rivedere le tradizionali pipeline di leadership alla luce dell’uguaglianza di genere e generazionale! Quanti di voi ne sono a conoscenza?
In secondo luogo, perché la rivoluzione 4.0 – basata essenzialmente sulla qualità del capitale umano, potenziato dalle tecnologie digitali – impone un salto della cultura d’azienda e l’adozione di nuovi modelli organizzativi. Mai come negli ultimi mesi, ci siamo resi conto di quanto la nostra realtà fosse già cambiata. La rivoluzione repentina del lavoro ha fatto comprendere anche ai più riottosi quanto la digitalizzazione esiga una riorganizzazione del lavoro, rendendolo più agile e trasparente, orientato agli obiettivi e basato sulla responsabilizzazione delle persone.
E’ il momento giusto per per rivedere vecchie logiche di valutazione e superare modelli di incentivazione, legati all’anzianità di carriera. Il focus oggi va messo sulla talentuosità, sulle competenze, sulle capacità relazionali, sul critical thinking e tutte quelle soft e life skills considerate fondamentali per affrontare il futuro. Si entra, finalmente, nel merito della qualità del lavoro, andando a demolire le “ragioni” della discriminazione di genere.
Cosa succede nelle aziende italiane?
Di fronte a un’occasione storica di tale portata, il III Rapporto dell’Osservatorio 4.Manager, dedicato al gender gap in ambito manageriale, mette in guardia organizzazioni, istituzioni e associazioni di categoria. Dal monitoraggio di un campione complessivo di 640 imprese, infatti, emerge una classificazione del grado di pro attività delle aziende rispetto ai temi delle asimmetrie di genere, che rispecchia un quadro arretrato, nonostante l’inserimento di un apposito articolo nel rinnovo del CCNL dei manager industriali nel luglio 2019:
1. Prima fase del processo evolutivo: circa l’85% del campione, quota che supera il 90% nel caso di Pmi. Imprese che si limitano a dichiarare/comunicare l’intenzione a mitigare le disuguaglianze di genere. Le politiche ruotano su questioni di principio e le azioni sono orientate soprattutto verso i portatori di interesse esterni dell’azienda.
2. Seconda fase del processo evolutivo: circa il 10% del campione. Imprese che, sporadicamente e in modo non strutturato, realizzano azioni concrete e cominciano a elaborare strumenti di misurazione dei progressi compiuti nel campo dell’uguaglianza di genere. Le politiche aziendali, seppure di carattere specifico, si possono ricondurre a normative di settore o ad aspetti contrattuali che impattano su uno o limitati aspetti della parità di genere.
3. Terza fase del processo evolutivo: il 4% del campione. Imprese che realizzano strategie e piani di breve, medio e lungo periodo, investono risorse crescenti per allineare uomini e donne, anche in campo manageriale. Queste organizzazioni adottano la parità di genere come elemento trasversale alla gestione e al management aziendale, creando sistemi di governance delle politiche di pari opportunità dell’azienda e modificando la propria organizzazione interna.
4. Quarta fase del processo evolutivo: l’1% del campione e sono tutte aziende di grandi dimensioni. L’impresa è un luogo di lavoro diversificato e inclusivo. La distribuzione di genere tra i livelli gerarchici e remunerativi tende a convergere. La trasparenza remunerativa è elevata. Esistono specifici programmi per mitigare il divario di genere manageriale.
Non c’è da stupirsi, dunque, di fronte ai dati sul management femminile, decisamente inferiori alla rappresentanza politica. A dire il vero, non solo in Italia, ma in tutta Europa. L’analisi pre-Covid condotta da 4.Manager, basandosi su dati Inps (2019) ci dice che su 605mila posizioni manageriali, solo 168mila sono affidate a donne (28%). Se poi si guarda a coloro che hanno un contratto da “dirigente”, allora su circa 123mila dirigenti italiani, le donne sono poco più di 22mila (18%) e negli ultimi dieci anni questa percentuale è cresciuta, in media, di soli 0,3 punti percentuali per anno. Inoltre, è la professione manageriale con le maggiori differenze di retribuzione di genere. E la pandemia non ha certo migliorato la situazione, provocando effetti non solo di breve, ma di medio-lunga durata, penalizzando i percorsi di carriera.
Riprendendo la dimensione evolutiva, risulta evidente quanto sia urgente inserire il concetto di “equità di genere” in una prospettiva più ampia, che ne valorizzi le potenzialità a favore di una più rapida e ricca trasformazione delle nostre aziende in organizzazioni intelligenti. Oggi, alla vigilia dell’avvio degli investimenti oggetto del PNRR e alla riformulazione della nostra economia, in chiave digitale ed ecologica, va colta l’occasione e posta la massima attenzione da parte di tutti gli stakeholder affinché si riparta in modo equo, trasparente, meritocratico e – ove occorre – con i giusti correttivi e meccanismi incentivanti, per superare le asimmetrie di genere che hanno depotenziano sino ad oggi il nostro paese.
Il Rapporto coglie una profonda domanda di cambiamento e una altrettanto forte insofferenza verso discriminazioni considerate non più sopportabili. Un esempio per tutti: a seguito della nascita di un figlio, la perdita reddituale delle donne occupate è del 35% nei due anni dopo il parto e del 10% negli anni successivi. Dovrebbe bastare per far indignare chiunque e non stupirsi più di fronte al crollo demografico e alla fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro. Le policy e le azioni da fare sono conosciute da almeno 20 anni. Bisogna volerle e saperle metterle in pratica. In passato sono state erroneamente derubricate a non strategiche. Oggi, dopo a averne pagato amaramente il prezzo, non abbiamo più scuse, né chance. La misura appena varata a favore dell’assegno unico universale per i figli va nella giusta direzione, ma non può certo rimanere isolata.
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