Non ho mai lavorato così tanto, non è mai stato così difficile difendere il mio calendario da un numero così impressionante di impegni, come da quando lavoriamo tutti da remoto. Non ho mai visto così tanti convegni (che adesso si chiamano workshop o webinar), su qualunque argomento, con così tanti relatori stipati in così poco tempo. Lo smart working doveva liberare il nostro tempo, renderlo flessibile, e invece lo ha rinchiuso dentro scatole minuscole che scandiscono le nostre giornate a colpi di secondi.
Ci stupiamo se non siamo tutti online al minuto stabilito, ci irritiamo se dobbiamo aspettarne tre o quattro per ricevere un link, troviamo normale lasciare all’improvviso, alle “zero zero”, un gruppo di persone con cui stiamo parlando perché “abbiamo riunioni back to back”.
Il tempo umano è analogico, il tempo degli smart worker è diventato digitale: fatto di unità “finite” che ci tirano per il collo dentro a un susseguirsi demoniaco di impegni. E’ il nuovo presenzialismo, è l’apoteosi dell’always on che aveva cominciato a fare capolino con la posta elettronica sui telefonini,
è la rottura degli argini compiuta da un fiume che non possiamo controllare: perché il tempo, nel mondo digitale, esiste solo quando è pieno.
Matt Martin, CEO di Clockwise, racconta in un’intervista a Forbes che nel dopo Covid si è visto un aumento del 17% di quello che chiama “tempo frammentato”, ossia blocchi liberi in agenda di meno di due ore: la sua organizzazione vende un software che “ottimizza il calendario per liberare blocchi di tempo ininterrotto”, aiutando le persone a difendersi dall’assedio degli “impegni degli altri”.
Questo è sempre stato il problema del digitale, assaggiato con l’avvento della posta elettronica – che ormai è una dilettante dal punto di vista dell’abuso di tempo rispetto a tool molto più avanzati: da 20 anni, la posta elettronica ha infatti azzerato la quantità di tempo necessaria a un singolo per invadere le agende e l’attenzione di un numero infinito di altre persone, quando e come vuole lui, spostando il costo della comunicazione interamente sulle spalle di chi riceve.
I nostri nuovi calendari “tutti digitali” fanno peggio: ci fanno vedere gli spazi liberi come tempo perso.
In un’intervista del 2004, il guru del management Tom Peters diceva di vedere “manager che sembrano bambini di 12 anni con deficit di attenzione, che corrono dal fare una cosa alla successiva, costantemente bombardati da informazioni, costantemente alla ricerca della prossima cosa eccezionale”. Per questo si diceva un fan del tema della “gestione del tempo”; ma attenzione, perché se applichiamo il concetto di management al tempo potremmo pensare che si tratta di ottimizzarlo per farlo rendere il più possibile, ed è proprio quello che stiamo facendo al nostro meglio adesso che è diventato digitale. Eppure non sta scritto da nessuna parte che time management equivalga a time saturation.
Mi mancano i viaggi in treno perché, complice la cattiva connessione, il rispetto per l’udito degli altri passeggeri e un po’ di mal d’auto ad usare il computer, era il tempo in cui potevo leggere con calma: ricerche, libri, articoli. Ne uscivo sempre con delle idee. Sempre nell’intervista del 2004, Peters racconta di aver sentito dire da uno dei “top ten finance people in the world” che “il problema più grande dei CEO delle grandi aziende è che non leggono abbastanza“. Quasi 20 anni e un’epidemia dopo, le cose non sono migliorate per nessuno.
Il tempo digitale non ha la gentilezza di una lancetta, che ci permette di sentirci approssimativamente in orario senza mai sapere veramente se lo siamo: eppure essere puntuali vuol dire arrivare “al momento giusto”, e potrebbe non riguardare solo il numero di minuti che vediamo sui nostri display, ma anche il modo in cui arriviamo nei momenti e quanto e cosa di noi riusciamo a portare.