Capire il gender pay gap non è facilissimo. Servono un po’ di tempo, un po’ di spazio e un po’ di dati (anche un po’ di pazienza, forse …).
Grazie alle lettrici e ai lettori di Alley Oop che ci dedicano il loro tempo e mantengono vivo l’interesse di lungo periodo su questo tema, a cui noi diamo spazio sul Sole 24 Ore alla luce dei dati di cui, di volta in volta, possiamo disporre.
E la disponibilità dei dati è il punto centrale: persone diverse hanno caratteristiche produttive diverse e quindi retribuzioni diverse, ma di queste caratteristiche produttive i dati disponibili ci dicono molto poco.
Abbiamo più volte sottolineato che “differenza di genere” e “discriminazione di genere” sono concetti riferiti ad aggregati diversi, e non possono essere usati come sinonimi. Poiché la discriminazione si produce solo in caso di disparità di trattamento a parità di ogni altra condizione, la quantità di informazioni di cui si può disporre per descrivere le caratteristiche dei due gruppi posti a confronto diventa di importanza cruciale: tanto maggiore è il numero di variabili esplicative che entrano nell’analisi dei dati, tanto minore sarà la componente non spiegata del differenziale stesso, cioè la discriminazione osservata.
La disparità di salario che emerge dai dati è infatti riferita al confronto tra due gruppi di individui (gli uomini e le donne) che si distinguono da molti punti di vista, e poiché le caratteristiche che li rendono eterogenei sono rilevanti per la produttività, esse contribuiscono a spiegare la differenza di retribuzione osservata nei dati. Le diverse dotazioni (o caratteristiche) di uomini e donne dipendono da una serie di cause, come ad esempio la divisione del lavoro tra produzione domestica e di mercato, la segregazione formativa, la segregazione occupazionale orizzontale e verticale, e così via, ciascuna delle quali rappresenta un problema per la piena realizzazione del potenziale produttivo della componente femminile della popolazione, e contribuisce in modo sostanziale alla spiegazione del differenziale salariale di genere, ma non rappresenta una disparità di trattamento a parità di altre condizioni, ed è, almeno in qualche misura, oggetto di scelta da parte delle donne stesse. Invece, ciò che resta dopo aver rimosso dai dati la componente delle dotazioni é un residuo che non é oggetto di scelta, e non ha alcuna giustificazione dal punto di vista della produttività.
Ad esempio, la caratteristica “occupazione a part-time” indica una differenza di genere (sono in maggioranza donne) che entra in modo non sorprendente nel calcolo del gender pay gap (chi lavora meno ore guadagna meno soldi), e può rappresentare un problema per l’allocazione delle risorse (perché più donne che uomini scelgono/ottengono il part-time), ma non è una discriminazione evidente al primo sguardo, cioè non è disparità di trattamento a parità di ogni altra caratteristica (perché non sappiamo quali siano l’età, il titolo di studio, la mansione, la carriera, le abilità, le competenze, le ore lavorate, il settore, l’azienda, ecc. dei due gruppi).
Allora cosa sappiamo? I dati aggregati ci dicono solo che ci sono differenze di genere nella allocazione delle risorse che si riflettono nelle differenze di retribuzione; queste differenze rappresentano un problema per il sistema economico (spreco di talento) nella misura in cui la struttura degli incentivi è distorta perché il condizionamento degli stereotipi domina le preferenze genuine e ostacola la razionalità delle scelte, ma non ci dicono se c’è (e, nel caso, quanto vale) un residuo non spiegato che rappresenta la discriminazione salariale, cioè la disparità di trattamento economico a parità di altre condizioni.
Le informazioni disponibili nei dataset aggregati ci consentono di approssimare solo in modo molto impreciso la condizione di ceteris paribus, mentre, per contro, la eventuale disponibilità di dataset aziendali anonimizzati sui dipendenti per sesso e livello gerarchico, e sulle loro retribuzioni, sarebbe risolutiva dal punto di vista informativo.
Ma dove i dati aggregati non aiutano, l’economia sperimentale risolve.
Gli esperimenti infatti sono proprio disegnati in modo tale da approssimare la condizione di ceteris paribus: ad esempio, lo stesso curriculum inviato alla valutazione alternativamente con un nome di uomo o con un nome di donna simula la parità di caratteristiche tra i due generi, e le differenze osservate nelle risposte (assunzioni, promozioni, retribuzioni, ecc.) ben rappresentano il correlato empirico della discriminazione di genere.
Allora cosa sappiamo, alla fine? Conosciamo i risultati di 30 anni di ricerche di economia sperimentale (Bordalo et al., American Economic Review 2019). Questi risultati sono robusti, e ci insegnano che i valutatori classificano sistematicamente le donne come meno competenti e meno meritevoli, e offrono loro retribuzioni minori rispetto agli uomini, a parità di caratteristiche rilevanti per la produttività. C’è dunque discriminazione di genere nel sistema economico. E ci vogliono politiche di pari opportunità per porre rimedio a questa inefficienza allocativa. Ma servono buoni dati per progettare buone politiche …