In questi giorni siamo tutti un po’ nervosi e sembra che ognuno di noi abbia scelto una diversa strategia di contenimento dell’ansia, mentre la fine delle vacanze ci mette di fronte al fatto che niente sarà normale ancora per un bel po’. Serve a poco riempirci di rassicuranti definizioni come “la nuova normalità”: ci è chiaro che da questa terra di mezzo niente uscirà uguale a prima, e che comunque qui siamo destinati a restare ancora a lungo. Se questo “a lungo” avesse una data di scadenza sarebbe tutto più facile: diteci che a marzo finisce, oppure a giugno… per la mente umana qualsiasi cosa è meglio dell’incertezza. Invece, non solo non sappiamo come sta andando e come andrà, ma non siamo nemmeno più sicuri di chi abbia effettivamente i titoli per darci informazioni, avendone sentite di tutti i tipi da ogni categoria di esperti.
Sembra di essere nel pieno di una sperimentazione quantistica, in cui l’unica strada di comprensione della realtà è quella dell’osservazione. Ma, come la fisica quantistica ci insegna, nell’osservare la realtà, la cambiamo.
Prendiamo per esempio la rabbia che molti genitori stanno provando in forme e misure diverse da mesi, con la sensazione di essere stati lasciati da soli a gestire un “problema” che, se la scorsa primavera era secondario, in autunno è diventato il tavolo su cui sembrano piovere tutte le scommesse della politica. Né nel primo né nel secondo caso c’è mai stato alcun sentimento di garanzia per chi alla fine doveva e deve fare i conti con la realtà di avere dei bambini e ragazzi di cui occuparsi ogni giorno, che piova o ci sia il sole, la tosse, la febbre, l’influenza.
La rabbia monta a piccole dosi quotidiane, diventa un mormorio di fondo (la psicologia lo chiama “ruminare”, i Latini la chiamavano “lamentatio”) che si esprime in piccoli fuochi di malumore rivolti un po’ a caso, ed è evidente come anche questa patologia possa essere estremamente contagiosa.
Che cosa fare quindi della rabbia, per evitare che diventi cronica e si sparga patologicamente intorno a noi? Non ho mai letto una spiegazione più chiara di quella che danno Yael Schonbrun ed Elizabeth Corey in un pezzo scritto per l’università di Berkeley a fine agosto: la rabbia, dicono le due professoresse, fa da grilletto per innescare una reazione, e quindi nella maggior parte dei casi è un’emozione utile alla soluzione del problema. Che cosa fare, però, quando al problema sembra non esserci soluzione? In quel caso la rabbia può diventare sottile e cronica, danneggiando persino la salute di chi la prova, ma è una conseguenza che è possibile evitare.
C’è sempre, infatti, tra ciò che ci provoca rabbia e noi, uno spazio di manovra.
Si tratta di un terreno che può diventare insidioso come le sabbie mobili quando, per esempio, alla rabbia reagiamo con l’immobilità, sperando di poterla ignorare o seppellire. Diventa invece uno spazio di possibile salvezza quando lo usiamo per prendere il controllo: non della fonte della frustrazione, ma del modo che abbiamo di reagire al nostro sentimento. Le professoresse la chiamano “accettazione”. E qui, se siamo arrabbiati, rischiamo di arrabbiarci ancora di più: dovrei dunque accettare che….? Dovrei dunque accettare ciò che mi sembra di non poter cambiare?
In realtà, lo spazio a nostra disposizione riguarda il modo in cui ci sentiamo, e ciò che sarebbe utile accettare è proprio questo: accettare di guardare in faccia la nostra sofferenza, la nostra incertezza, la nostra fatica, qualunque sia la reazione che la situazione ci sta provocando. “Notarla” come si dice in gergo, e quindi farla nostra a pieno titolo. Che cosa succede quando lo facciamo? A livello cerebrale, spostiamo la gestione dall’amigdala – la rabbia è un segnale di pericolo che ci provoca delle reazioni primitive – alla corteccia prefrontale, ovvero la parte evoluta del nostro cervello. Una volta messa lì, possiamo prendercene cura usando il meglio della mente umana a nostra disposizione, fosse anche solo decidendo che, vista la difficoltà in cui siamo, ci meritiamo una carezza o un caffè.
Risolve il problema? No, e non era questo l’obiettivo sin dall’inizio: trovare le formule che risolvono i problemi non è sempre (non è quasi mai?) un obiettivo alla nostra portata.
Oggi più che mai vediamo che muoverci nella complessità della realtà richiede una capacità diversa da quella della “soluzione”. Navighiamo con un livello di incertezza che i nostri antenati frequentavano ogni giorno, alternando paura a meraviglia. Non possiamo sempre intervenire su ciò che causa le nostre emozioni, ma abbiamo un territorio di possibilità che è unico della specie umana: la libertà di scegliere come reagire.