Dogtooth: nelle viscere della famiglia con il film di Lanthimos

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Cos’hanno a che fare un canino, una splendida villa con piscina, un feroce (?) gatto e dei modellini di aeroplano? La risposta è in Dogtooth, film del regista greco Yorgos Lanthimos, in questi giorni nelle sale.

Spesso il cinema ci offre divertimento e distrazione, funziona cioè da momento di entertainement, ma il cinema può essere anche qualcosa d’altro: una macchina spettacolare che aiuta la ginnastica del pensiero. E non è affatto detto che i film che coltivino questa ambizione debbano per forza essere dei mattoni, far fuggire il pubblico o narcotizzarlo …

Dogtooth (titolo originale Kynodontas) appartiene certamente a questo secondo tipo (non in quanto mattone…) e ha la capacità di calamitare l’attenzione dello spettatore dalla prima inquadratura, catturandolo in una sorta di realistica allucinazione, nella quale, mentre si racconta la storia apparentemente banale di una benestante famiglia greca, ci si rende conto a poco a poco che i conti non tornano, i personaggi sembrano pensare e agire in modi incomprensibili e ci mettono di fronte a una storia surreale, a tratti comica, più spesso grottesca, in ultima istanza tragica.

Il film è del 2009, è stato premiato al festival di Cannes di quell’anno, vincendo il premio Un certain regard e venendo poi candidato agli Oscar nel 2011 tra i migliori film stranieri. Arriva solo oggi, 11 anni dopo, nei cinema italiani grazie alla casa di distribuzione Lucky Red.

La vicenda inizia con una voce femminile fuori campo – quella della madre – proveniente da un registratore, che spiega “le parole nuove che impareremo oggi”: quando ascoltiamo il significato della parola “mare” (con cui si apre il trailer) riceviamo una prima scossa, siamo spinti a ridere, ma non è una risata di cuore.

La vita della famiglia è scandita dagli orari del padre, che al mattino va al lavoro – è dirigente in una polverosa e grande fabbrica -, mentre la moglie e i 3 figli, un maschio e due femmine di età compresa all’incirca tra i 17 e i 20 anni, restano a casa: passano la giornata tra lavori domestici, esercizi ginnici, bagni in piscina, giochi e discorsi, in attesa del ritorno del capo famiglia per cena, alla quale tutti partecipano elegantemente vestiti. E dopo cena? Si può scegliere tra vedere un video di vecchie feste familiari o ascoltare delle canzoni, a quanto dice il padre cantate da loro nonno, ma la voce è quella inconfondibile di Frank Sinatra… A decidere il programma è il vincitore delle periodiche sfide tra i figli, organizzate per stimolarne impegno e spirito competitivo.

La vita scorre lenta tra le mura del giardino che isola la grande villa, nella quale nessun contatto con l’esterno è possibile: niente radio né televisione, niente visite, il telefono (di cui i figli non sospettano nemmeno l’esistenza) tenuto sotto chiave nella stanza dei genitori, dove la madre si chiude a chiave quando deve utilizzarlo. Unico deputato a uscire è il padre.

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Una sola visita, periodica, varia la monotonia del quotidiano, quella di Christina, ragazza che lavora come sorvegliante nell’azienda del padre e viene da questi condotta a casa – bendata durante il tragitto in auto – per soddisfare le esigenze sessuali del figlio maschio. Per le due ragazze il problema non viene neppure contemplato e sono lasciate così libere di abbandonarsi alle loro fantasie in altri modi.

Ma è proprio attraverso questa persona esterna al nucleo familiare, introdotta per mantenerne la stabilità, che inaspettatamente il mondo trova una breccia per introdursi, sotto forma – molto significativamente – di film in video cassetta. L’effetto sarà paragonabile a quello di un germe che, nel corso della narrazione, vedremo crescere fino a produrre effetti dirompenti, su cui evito qualsiasi spoiler.

Scritta da Lanthimos, per la prima volta affiancato dallo sceneggiatore Efthymis Filippou – la coppia che ha firmato tutti i successivi film, arrivando nel 2017 con Lobster alla nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale -, questa storia perturbante semina a piene mani nello spettatore interrogativi, spunti di riflessione, suggestioni e possibili interpretazioni, che ci accompagnano anche una volta usciti dalla sala.

Come in tutti i grandi film, la storia e il modo con cui viene raccontata formano una maglia compatta e indissolubile: Lanthimos filma in modo preciso, distaccato e oggettivo, raccontando con linearità e chiarezza, ma contemporaneamente crea un fertile contrasto attraverso la recitazione fredda e a tratti robotizzata degli attori e una modalità di inquadratura che non segue la logica usuale, facendo vedere l’azione principale o il personaggio che parla, ma al contrario mostra l’ascoltatore oppure nasconde una significativa porzione di scena, che desidereremmo poter osservare. In questo modo si alimenta un sottile disagio nello spettatore, portato a seguire la vicenda con un’attenzione vigile e in fin dei conti inerme di fronte all’irrompere dei pochi e improvvisi momenti drammatici, come esplosioni che fanno affiorare alla superficie dell’immagine la violenza implicita sottesa alla storia.

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Affascina la plasticità del film, una qualità rara, che consente alla storia di caricarsi di significati ulteriori, lasciati alla sensibilità, cultura e sentimenti di chi lo osserva.

Una prima, ovvia lettura è di carattere familiare: come nelle cupe e abbaglianti saghe di Eschilo e Sofocle, un sentimento tragico profondamente greco, dove la stirpe, il ghénos, incarna la legge del destino, contro cui gli uomini sono impotenti, incontra le moderne teorie psicologiche, modellando la figura del padre, eroe e despota, incarnazione di un’autorità indiscutibile e assoluta. Intrecciata a questa, si può portare avanti una seconda lettura, che insista sugli aspetti psicanalitici e sessuali (non a caso il film è vietato ai minori): i rapporti morbosi tra i figli, le allusioni nemmeno troppo velate all’incesto, la inquietante eliminazione del piacere e dell’immaginazione nelle dinamiche sessuali, ridotte a pura fisiologia e a una libido elementare, pre-adolescenziale, possono portare a leggere Doogtooth come un feroce atto di accusa contro la famiglia in quanto strumento di repressione della libertà e di castrazione dell’autonomia dell’individuo.

L’ovvia analogia fra famiglia e società motiva facilmente una lettura storico-politica: il padre rappresenterebbe il paternalismo reazionario dei regimi dittatoriali, siano di destra o di sinistra, che affollano le gallerie della nostra storia più o meno recente. La Grecia ha vissuto la dittatura dei colonnelli (1967-1974), ma in questo inizio di XXI secolo sovranismi e dittature, che proclamano di parlare “in nome del popolo”, possono generosamente offrire termini di confronto.

Possiamo agevolmente accogliere anche una lettura in chiave di gender, perché la rivoluzione parla al femminile: introdotta nel gruppo familiare da Catharina, è accolta non dal figlio maschio, ma dalla figlia maggiore. È lei che porta avanti la ribellione, è lei che, in una potente sequenza, si abbandona a una danza sfrenata (ispirata a quella di Flashdance), di una ferinità da baccante, ed è ancora lei che nel finale… ma lascio a voi di scoprirlo.

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Eccesso di interpretazioni? Può darsi, ma ci incoraggia su questa strada Lanthimos stesso, non dandoci nessun punto di vista personale: il compito di provare a trovare un senso in quel che ci viene raccontato è lasciato così interamente a noi.

E mi piace chiudere con un’ulteriore, possibile chiave di lettura, che è anche un commovente atto d’amore per il cinema: l’irruzione del mondo esterno avviene infatti tramite videocassette di film. Lanthimos rivendica in questo modo, con sottile ironia visto che si tratta di film apparentemente disimpegnati come Rocky e Flashdance, la forza sovversiva del cinema, concepito come opera d’arte e costruzione intellettuale, che richiede allo spettatore la disponibilità ad affrontare, nel tempo della visione, un viaggio nel profondo, di sé e del mondo. Roba rara di questi tempi, ne converrete…