Nuovo anno scolastico: ecco perché un ragazzo alla pari può essere una buona idea

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Photo by Juliane Liebermann on Unsplash

In questi giorni cominciamo a pensare al rientro da queste strane vacanze, all’organizzazione familiare, alle numerose incertezze sui luoghi da cui noi lavoreremo e i nostri figli studieranno. Io, per la prima volta in otto anni di esperienza con i “ragazzi alla pari”, ho chiesto al mio babysitter dello scorso anno di restare con noi un altro anno. Fortunatamente, ha risposto di sì.

Gli “aupair” – francese per “alla pari” – sono ragazzi e ragazze che desiderano fare esperienza in Paesi stranieri: si propongono quindi come babysitter speciali, dato che entrano letteralmente a fare parte della famiglia con cui vivono. I benefici di una figura di questo tipo sono molti: sono ragazzi che portano una ventata di novità in casa anche grazie al fatto di essere stranieri, si occupano dei bambini con un ruolo che non è “professionale” ma quasi da fratelli maggiori, meno formale di quello di una tata ma, se si è fortunati, anche più ricco. Vivendo in casa, danno poi una disponibilità più ampia e flessibile di un babysitter di professione e sono molto meno costosi.

Ci sono, ovviamente, delle contropartite: la convivenza richiede comprensione da entrambe le parti, i caratteri potrebbero non conciliarsi e soprattutto ai genitori è richiesta la capacità di adattarsi a persone molto diverse tra di loro: giovani che spesso fanno questa esperienza proprio perché ancora non sanno bene “chi sono” e che vanno osservati, ascoltati e guidati mentre si occupano dei nostri figli.

Possono capitare degli incidenti? Si, come ogni volta che si sceglie di fare qualcosa di “diverso”: ovviamente è utile – e secondo me necessario – spendere i primi giorni insieme a loro per capire se possiamo lasciargli i nostri amati pargoli con tranquillità, e poi stabilire regole chiare per il mantenimento della fiducia. Ma in otto anni (e circa 15 aupair) non mi sono mai pentita di questa scelta.

Come trovarli: io uso da sempre un sito che ne ha profilati migliaia, aupairworld, che ha il vantaggio di avere degli ottimi filtri di ricerca, consentendo quindi di scegliere nazionalità, genere, età, livello di esperienza, lingue parlate e molte altre caratteristiche utili (fuma/non fuma, aiuterebbe in casa, lavorerebbe con bambini con disabilità, ha la patente…). Su siti di questo tipo, mentre la famiglia guarda gli aupair, gli aupair guardano le famiglie, e il match deve avvenire da entrambe le parti. Solo quando si accende l’interesse, il sito chiede di pagare una sottoscrizione per avere per un mese la possibilità di entrare in contatto con i ragazzi via chat e organizzare i passi successivi (video call, richiesta di referenze, visita di un fine settimana o altro).

Che caratteristiche deve avere una famiglia per ospitare un aupair? Eccole, come vengono elencate sul sito:

Almeno uno dei vostri figli vive ancora con voi e ha meno di 18 anni.     
Potete offrire all’au pair una stanza tutta per sé.            
Siete alla ricerca di una sorella o di fratello maggiore che si prenda cura dei vostri figli e che vi aiuti in qualche faccenda domestica.    
Parlate quotidianamente l’italiano in famiglia.  
Sieti disposti a lasciare del tempo libero all’au pair in modo che possa frequentare un corso di lingua. 
Avete una nazionalità diversa da quella del vostro futuro au pair.

Quanto costano: vivono con noi, quindi vitto e alloggio più, se possibile, un corso di lingua – a Milano per esempio ci sono quelli del Comune, molto ben fatti e non costosi – e una “paghetta” che il sito stesso aiuta a definire.

“L’impegno di un au pair in Italia non dovrebbe superare le 5 ore giornaliere (ore di babysitting serale incluse) distribuite su un massimo di 6 giorni alla settimana. In base alla nostra esperienza, consigliamo alle famiglie di orientarsi tra i 250 e i 300 euro al mese. La paghetta (pocket money) offerta dalla famiglia ospitante non ha nulla a che vedere con un comune stipendio e solitamente non deve superare l’importo indicato di 250 – 300 euro al mese”.

Chi scegliere: qui vi propongo la mia esperienza. I primi anni ho cercato ragazze del Nord Europa: volevo far vedere ai miei bambini quel tipo di cultura e di atteggiamento mentale e volevo che parlassero l’inglese. Non ne trovavo sempre, quindi qualche volta mi sono orientata verso ragazze spagnole che parlassero bene l’inglese, e mi sono accorta che con loro era “più semplice” capirsi – quindi più rilassante per me. Ma tre anni fa, rendendomi conto che mio figlio Luca viveva circondato da femmine, ho provato a selezionare un aupair maschio. E non sono più tornata indietro!

I ragazzi che si propongono sono molto meno numerosi, ma al tempo stesso ricevono molte meno richieste: i pregiudizi verso l’avere un babysitter maschio sono ancora molti e di vario tipo. Ma eccoci qui: Ruben, che si fermerà con noi un altro anno, è la persona più accudente e dolce che abbiamo mai avuto in casa. Per la gioia di mio figlio Luca, adora giocare – sì, ai ragazzi giocare piace più che alle ragazze – ma è anche bravissimo a fare il pesce al forno con le patate ed è sempre attento ai nostri stati d’animo. E’ ordinato, preciso, affidabile e disponibile e… ogni volta che ne vede la possibilità, si prende cura anche di me: credo sia perché adora la sua mamma ed è abituato ad avere cura di lei.

Quindi: se avete dei bambini, una stanza libera e la voglia di aprire la vostra casa ed esperienza a un mondo di abitudini diverse dalle vostre, il mio consiglio è di provare con i ragazzi alla pari. Come sempre, insieme alla complessità arriverà la ricchezza, e il risultato potrebbe essere sorprendente.

  • GIUSEPPE |

    Il tema delle figure maschili nel settore educativo in generale, e in quello privato in particolare, mi sta molto a cuore. Ne ho parlato spesso nei miei post, essendo io stesso un male nanny – un manny – , ma i riscontri non ci sono. Bisogna ammaterlo, la cultura educativa italiana – almeno nella fascia 0-6 – è prerogativa femminile. Molte di loro sono preparate, bravissime e determinate a restare nel settore. Credo che il maggiore ostacolo alla diffusione dell’idea di fondo di questo articolo risieda proprio nell’assenza di un sostrato culturale; un fattore culturale “contrario” che anocra non riusciamo a rimuovere e che penalizza ogni possibile slancio di speranza.
    I ragazzi alla pari sono una buona idea, e chi ha avuto la fortuna di stringere un patto di fiducia con loro non è più tornato indietro. Dal mio punto di vista, sebbene la soluzione possa in qualche modo servire da “apripista” alla sensibilizzazione circa la presenza di un universo maschile parimenti qualificato, non bisogna dimenticare una cosa: l’intenzione pedagogica.
    Esternamente, ad un occhio poco allenato, un sorriso è un sorriso, come una carezza è una carezza. Ma ciò che decide della sua bontà è l’intenzione che si cela dietro. Infatti, un’azione svolta in un contesto sbagliato, nel momento e con l’intenzione sbagliata arreca solo un danno al bambino. Premiare senza una precisa finalità il bambino, non soltanto lo rende inconsapevole delle sue azioni, ma soprattutto gli restituisce l’idea che qualsiasi cosa che farà sarà premiata, e questo di certo non lo aiuterà a crescere.
    Questo è solo un esempio estremo, ma credo possa servire per capire che non dobbiamo dare per scontato nulla, e che la formazione è un tassello fondamentale.
    A livello più profonfo, non dichiare formalmente il ruolo di un ragazzo alla pari – assimilandolo a un ospite di casa o a un amico di famiglia – porta a delle conseguenze inattese nel momento della gestione degli eventi critici e delle responsabilità a questo collegate.
    Grazie Riccarda Zezza, lo spunto è ottimo. Speriamo ci sia un riscontro reale. Cordialità.

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