#CaraAlley, ti racconto quella volta che ho abortito

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Pic by Martino Pietropoli

Cara Alley,

Da qualche giorno avevo giramenti di testa. Non volevo crederci troppo perché non era molto che provavamo ad avere un figlio. Il 3 novembre decido di fare il test di gravidanza. La seconda linea si colora: sono incinta.

I primi mesi della gravidanza proseguono bene, qualche fastidio, ma nemmeno troppo invadente. Il 16 dicembre compio 37 anni. Di solito dopo i 35 si consiglia di fare amniocentesi o villocentesi, ma nel mio caso, anche vista la presenza di un utero fibromatoso, insieme al mio ginecologo decidiamo di fare il Prenatal Safe. Il 22 dicembre faccio una breve ecografia e il prelievo di sangue da inviare al centro analisi.

Normalmente queste analisi forniscono i risultati dopo 5 giorni lavorativi, ma in questo periodo ci sono le festività di mezzo quindi so che impiegheranno più giorni. Non sono giorni sereni, ma do la colpa ad uno stato di preoccupazione perenne che mi attanaglia da sempre quando aspetto i risultati di qualsivoglia tipo. Il 2 gennaio partiamo per il Veneto (io sono di Roma), per una breve vacanza. La mattina del 3 Gennaio mi telefona il ginecologo “Buongiorno signora, mi hanno telefonato dal laboratorio, c’è un problema, sospettano ci sia una trisomia 13. Mi dispiace dirglielo così ma purtroppo non c’è un modo meno brutto per dire una cosa del genere“. Vuoto. Sono sotto shock.

Ah. Certo, no non si preoccupi”. Mi dice, però, che quella del laboratorio non è una diagnosi e che, quindi, deve essere confermata con la villocentesi o con l’amniocentesi. La prima deve essere fatta entro la 14esima settimana, quindi sono proprio al limite, per la seconda, invece, dovrei aspettare almeno altre 3 settimane. “Ok”. Dico sì a tutto, sperando che quella conversazione finisca il prima possibile.

Riattacco e inizio a piangere. Ci metto un po’ per spiegare al mio compagno che è seduto vicino a me che cosa mi ha appena detto il medico. Mi sento come se il mondo mi fosse crollato addosso. Mi faccio inviare il report dal laboratorio in cui leggo in rosso che “è stata rilevata un’aneupladia del cromosoma tredici (TRISOMIA 13)” e più in basso la percentuale di probabilità (in realtà, in termini tecnici viene chiamato Valore Predittivo Posi): 92.86%.

Ma poi cos’è questa trisomia? L’unica trisomia che conosco è la 21, di questa non ne ho mai sentito parlare. Ci informiamo. Non parlerò di cosa comporta questa malformazione genetica, perché non è questo il punto. La definiscono “incompatibile con la vita”. Mentre inizio a fare mente locale, mi giro verso il mio compagno e gli dico “se dovessero confermare la diagnosi, io non ce la farei a portarla a termine”. Lui mi guarda, è stravolto anche lui, e mi dice che sì, è d’accordo con me. Non ci ho messo molto a prendere la decisione. Non è stata a cuor leggero, ma ci sono state tante motivazioni (personali e non sindacabili come lo sono tutte le motivazioni che spingono una donna a fare una scelta del genere) che mi hanno portato a pensare da subito che quella fosse la decisione giusta. L’unica possibile per me. Per noi.

Da quel momento in poi iniziano una serie di telefonate frenetiche per trovare un centro che facesse la villocentesi in poco tempo. Trovare posto in strutture pubbliche con così poco preavviso è impensabile, si parla di liste d’attesa di mesi. Per questo chiamiamo i centri d’analisi più grandi di Roma e finalmente dopo diversi tentativi troviamo posto per l’8 gennaio. Costo della villocentesi 1300 euro. Per fare l’esame, però, servono delle analisi, alcune delle quali già fatte nei mesi precedenti, altre da fare (tra cui il Test di Coombs, un esame che fanno davvero pochi centri). Altri soldi. Per fortuna lo stesso laboratorio che fa la villocentesi, è aperto il 6 gennaio e fa tutte le analisi che mi servono, quindi prenotiamo lì in modo tale da non correre il rischio di non avere le risposte in tempo.

Alla fine della giornata con il mio compagno siamo riusciti a prendere tutti gli appuntamenti necessari e a sistemare tutte le cose prettamente organizzative. Ci sentiamo stravolti, stanchi, distrutti. Per la prima volta da quando è iniziata quella giornata mi trovo a fare i conti con la mia decisione. Tutti continuano a dirmi di ‘rimanere positiva’, ‘che non ho ancora la certezza che il feto non sia sano’, ‘che magari è un falso positivo’. Ma la mia esperienza mi ha insegnato che è sempre meglio prepararsi al peggio, che per il meglio si fa sempre in tempo o per dirla come una canzone dei The Ark “hoping for the best, but expecting the worst” (spero nel meglio, aspettandomi il peggio).

Metto a fuoco che ho superato i 90 giorni entro cui, per legge, si può praticare l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza). Quindi? Inizio a leggere freneticamente tutto ciò che trovo su internet. In questi casi si parla di aborto terapeutico. Ricordo di averne letto in passato e i ricordi delle storie lette mi tornano alla mente e mi terrorizzano. Quanti sono gli ospedali che praticano l’aborto terapeutico a Roma? Pochi, troppo pochi. Pensavo, ingenuamente, che tutti quelli che praticano l’IVG, facessero anche quello terapeutico. Non è così. Sono una piccola parte. A Roma mi sembra di capire che sono 5 o 6. Reperire informazioni precise, inoltre. non è facile, non esiste una pagina dove sono elencati, cerco di capirlo leggendo le pagine dei singoli ospedali o leggendo esperienze di altre donne, ma è tutto confuso.

Una volta identificati gli ospedali, provo a capire quali sono quelli con meno obiettori di coscienza. In uno, ad esempio, c’è solo una dottoressa a praticare aborti, tutti i suoi colleghi sono obiettori di coscienza. Anche negli altri la situazione è simile. Una piccola percentuale dei medici lo pratica. Gli altri sono obiettori. Mi rendo conto che devi, quindi, essere molto molto fortunata a capitare nel turno di uno di quei dottori e devi anche essere veloce ad eseguire la ‘pratica’ perché se ci metti troppo ed entri nel turno degli obiettori (e potrebbero essercene anche 2-3-4 di seguito) rischi di rimanere ignorata per ore (se non giorni).

La mia ansia cresce e cresce ancora di più quando capisco superata la 15esima/16esima settimana (a seconda delle gravidanze) l’aborto non è più tramite raschiamento, ma con parto indotto. Il feto deve essere partorito. Io sono già alla 14esima settimana e il tempo di attesa dei risultati della villocentesi mi porterà oltre quella data. Sono paralizzata dalla paura, dalla paura di dover affrontare un ‘parto’, di rischiare di doverlo affrontare da sola su un lettino di un ospedale durante il turno di obiettore, magari in mezzo a donne che stanno portando a termine la loro gravidanza (sì, succede anche questo).

Cerco così qualcuno in rete che possa aver vissuto quello che sto vivendo io. Ed anche per questo che scrivo tutto ciò, affinché qualche ragazza che si ritrovi nella mia storia si senta meno sola. Navigando con chiavi di ricerca quali “esperienza+aborto+terapeutico+Roma”, “aiuto+donne+aborto+terapeutico” trovo il blog di una ragazza che aveva abortito dopo una diagnosi terribile. Le scrivo una mail sperando che sappia darmi delle informazioni più precise. Lei mi risponde immediatamente e mi dice di rivolgermi ad una associazione che chiamata “Vitadadonna”. Vado sul sito e scrivo alla dottoressa Canitano che mi dà immediatamente il suo numero di telefono. In pochi messaggi mi tranquillizza e mi assicura che se l’esito della villocentesi dovesse confermare quello del Prenatal Safe, lei mi indicherà un ospedale dove praticare l’aborto, tentando di capire anche i turni dei medici obiettori. Un’altra organizzazione che avevo trovato in quella ricerca è la “Casa Internazionale delle Donne” e, se la ragazza del blog e la dottoressa Canitano non mi avessero risposto così rapidamente, avevo deciso di rivolgermi a loro, perché a Roma sono una delle poche associazioni che danno supporto alle donne in queste occasioni. E io avevo bisogno di supporto, avevo tanto bisogno di supporto.

Arriva l’8 gennaio, il giorno della villocentesi. La notte non riesco a dormire. Arriviamo al centro e vedo tante donne con il pancione, mi chiedo se arriverò anche io ad averlo o se finirà tutto prima. Ci fanno entrare nella stanza di un medico che ci informa che prima di fare l’esame devo essere sottoposta ad una breve ecografia. Mi stendo sul lettino. Il medico mi mette il gel sulla pancia e subito dopo mi dice “signora, mi dispiace” prende fiato “non c’è più battito”. Il mio compagno mi stringe la mano, ha gli occhi lucidi, io piango.

Signora non pensi che può essere stato un suo comportamento, non c’entra essere andati in motorino, aver bevuto il caffè, non è colpa sua in nessun modo, probabilmente il Prenatal Safe aveva ragione.“ Apprezzo tanto quelle parole, non sono ovviamente mai andata in motorino in gravidanza, ma ho capito cosa volvolev dirmi e in quel momento mi è sembrata una cosa molto dolce. Gli sorrido, lo ringrazio e ce ne andiamo.

Esco dalla stanza e improvvisamente mi sento sollevata. So che può essere difficile da comprendere ma la natura aveva scelto al posto mio, anche se avevo già scelto. La natura, soprattutto, mi aveva risparmiato tutto quel percorso di ricerca dell’ospedale, del parto indotto, degli obiettori che era stato l’incubo di quei giorni. Ora, infatti, si trattava di un aborto spontaneo. Potevo farlo nell’ospedale dove avrei dovuto partorire, ospedale che non pratica l’aborto terapeutico.

Il 14 gennaio vado in ospedale e, in day hospital, mi sottopongo all’intervento. I medici e gli infermieri sono gentilissimi e mi trattano davvero bene, ma mi viene naturale chiedermi se sarebbe stato lo stesso se quella decisione l’avessi presa io (come poi in effetti era) e non la natura.

Quando ripenso a quei giorni mi trovo a fare i contri con gli effetti che ha avuto su di me quell’esperienza e non riesco a non pensare a cosa sarebbe successo (e, in realtà, a cosa succede) se al mio posto, una donna di 37 anni sicura di sé e della sua relazione, sicura della sua scelta, appoggiata dal proprio compagno e dalla propria famiglia, fortunatamente senza grosse difficoltà economiche che vive a Roma, ci fosse stata una ragazza di 18 anni, una donna straniera che parla poco l’italiano, una ragazza madre che vive in un paesino sperduto, ma anche, più semplicemente una donna come me che non può permettersi di spendere 1300 euro di villocentesi, più i soldi delle analisi, più i soldi del medicinale. Una donna che, detto banalmente, non ha i miei stessi privilegi, le mie stesse possibilità.

Una donna quando compie una scelta del genere non dovrebbe avere altri pensieri, dovrebbe sapere che la sua scelta verrà rispettata e che verrà fatto il possibile per fargliela portare a termine in sicurezza. Ma così, troppo spesso, non è.

Questo non è un Paese per donne.

Elisa Collini

  • MIRELLA |

    Ci sono passata anche io con l aborto terapeutico un trauma che non si dimentica. Una settimana fa ho abortito ed ero al quinto mese ora sono disperata e non so cosa fare ho fissato appuntamento da uno psicologo ho pensato pure che cel hanno con me da lassù e che non ho fatto nulla a nessuno eppure mi vogliono punire, ho scelto di non far nascere il mio bambino perché poteva avere problemi alla testa e avere handicap, aveva pure una cardiopatia, ho dovuto scegliere in fretta dalla mattina a metà pomeriggio per fare l interruzione di gravidanza e mi chiedo ora perché proprio a me? Scusate lo sfogo ora sono sola e non ho con chi parlare

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