Indignate, le donne trasecolano davanti al dato Istat uscito questa settimana sull’aumento del numero di dimissioni delle madri nel 2019: 37.000, che porta il totale a oltre 200.000 dimissioni dal 2011. Chi se l’aspettava?
Avremmo potuto aspettarcelo tutte, eppure anche le studentesse che incontro nelle università si stupiscono quando racconto che l’Italia continua a scendere nella classifica sulla parità del genere del World Economic Forum, avendo raggiunto nel 2019 una scandalosa 119 posizione per quanto riguarda partecipazione e opportunità economica delle donne (era 87esima nel 2006: sempre spaventoso, ma comunque 30 posizioni più su).
Le giovani donne non se lo aspettano. Confidano che la nostra generazione abbia completato l’abbattimento di muri e soffitti vari iniziato dalle nostre madri. Ci vedono libere e piene di diritti, qualche volta adesso ci vedono anche parlare ai convegni e guidare aziende. Non notano che nei giornali le firme delle prime pagine sono sempre al 90% maschili, che le poche donne che si vedono qui e là nelle foto delle notizie sono state pescate tra selve di cravatte, che il codice là fuori è ancora quello del secondo millennio, forse anche un po’ inasprito dalla minaccia delle quote rosa.
Sorprese quindi noi donne, giovani e meno giovani, nello scoprire che più del 10% delle donne che ha un figlio in Italia lo “paga” col proprio posto di lavoro: 22.200 su 204.000. E questo numero si innesta su una realtà in cui metà delle donne vuole lavorare e solo la metà di queste riesce a farlo: quindi lavora appena una donna su quattro.
Importano i motivi addotti al momento della firma all’Ispettorato del Lavoro? In fondo, le chiamano “dimissioni volontarie”, quindi suonano come una scelta. Una scelta che, per il 53% delle dichiarazioni, è legata all’ “impossibilità di conciliare lavoro e cura del bambino”. Nello specifico, “Assenza di parenti a supporto” nel 27% dei casi: una ragione che non dovrebbe essere nemmeno presente nella fotografia di un Paese che rappresenta l’ottava potenza economica mondiale, in cui le donne votano da 75 anni. Il fatto che sia la più citata indica che la “presenza” dei parenti a supporto è il modo più comune per fare fronte a questi bisogni in Italia, alla faccia dell’autonomia dei nuclei familiari.
Poi c’è il non detto. La paura prima, quando si tratta di scegliere se averlo, un figlio. Paura della fatica psicologica di doverlo “dire al mio capo”. Paura di quel che succederà dopo: le abbiamo viste tutti, le colleghe marginalizzate perché non potevano più “dare tutto al loro lavoro”. Le abbiamo viste correre, cercando di ottimizzare le riunioni, anticipare gli appuntamenti, esserci per i figli e per i clienti, tornare al lavoro dopo il parto “come se niente fosse accaduto”, sperando che anche per la loro azienda fosse così. Che quella novità potesse restare invisibile, se non poteva essere accolta con gioia.
Provate a dirlo voi, a una donna di 30 anni, che è libera di scegliere se avere un figlio. Che anzi deve sbrigarsi, perché la curva della fertilità scende velocemente. Che il suo Paese ha bisogno dei figli, che sono il futuro. E intanto non è cambiato niente, da un numero di anni che non ha neanche più senso contare. Anche il World Economic Forum continua a spostare in avanti la fatidica data in cui “la parità sarà raggiunta”. Adesso ragiona in secoli.
E’ un problema complesso. Non basta un bonus per risolverlo. Dovrebbero mettersi insieme tutti i ministeri, nessuno escluso, per investire in un piano i cui risultati si comincerebbero a vedere tra cinque anni. Chi, in politica, ha questo orizzonte temporale? Chi ha questa volontà?
Perché è vero che lo stigma alla fine emerge nei posti di lavoro, ma è la cultura a nutrirlo e farlo prosperare. Se le persone pensano di potersi permettere di licenziare le madri, se le donne devono vivere la maternità come una minaccia, la responsabilità non è delle aziende: è del Paese.
E’ degli uomini, qui intesi come genere umano ma anche come decisori. Li avete sentiti commentare, voi? Della politica possiamo dire molte cose, ma non che non sia scaltra nell’interpretare l’umore del popolo. E il popolo ha altre priorità. Mentre le madri sono troppo occupate a sopravvivere e a prendersi cura degli altri per fare politica per sé. Che in questo Paese, nel 2020, si debba aver paura di partorire perché si viene lasciate sole e si perde la propria indipendenza economica è una ferita profonda che resterà nella nostra storia, e non è un “problema delle donne”.