“In fondo sto bene. Per ora lavoro da casa, ho un computer aziendale e anche questo mese ho pagato l’affitto. Ma sono l’eccezione a una regola sbagliata e ingiusta”.
Sara ha 25 anni e vive a Roma da 6. Una laurea triennale conquistata in 36 mesi giusti, con la magistrale già da frequentare, “per non aspettare un altro anno. Un anno di tasse, affitto e libri”. Nata nel 1994 e figlia del 2008. La parola crisi non l’ha conosciuta con il covid-19, ma ha imparato ad associarla ad una nuova: pandemia.
Tra i grandi assenti della ripartenza, c’è Sara. Con la sua generazione. La generazione Y, la generazione Erasmus, dei nativi digitali. Dell’incertezza.
E, pur di domarla, una laurea, un master e poi uno stage, quel contratto a prestazione occasionale, quel co.co.co o co.co.pro. Ma, nella ripartenza e a una settimana dalla Fase 2, la generazione millennials è la generazione dimenticata. Quella tra i 30 e i 40 sotto scacco, come l’ha definita Mario Morcellini, commissario Agcom, sociologo e studioso dei mass media.
La demografia della ripartenza parla chiaro: dallo studio portato avanti da Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, è particolarmente evidente lo squilibrio tra le attività che dal 4 maggio sono rimaste chiuse – dove un lavoratore su tre ha meno di 30 anni e quasi due su tre hanno meno di 40 anni – e quelle che sono aperte o riapriranno a breve, per le quali la distribuzione è spostata verso le fasce meno giovani.
Il tasso di disoccupazione, già triplo rispetto al tasso medio della popolazione italiana, diventa lo stigma della generazione Y anche in pandemia. Sarà peggio? Se lo chiede Viola, 24 anni e studentessa di Statistica in Sapienza: “per il momento, faccio la spesa e pago la mia stanza singola con la borsa di studio. Dovrò laurearmi il prossimo anno e, l’incertezza che già c’era, ora pesa di più”. Intanto, le lezioni a distanza la tengono lontana dall’ateneo che le manca: “non è la stessa cosa vivere l’aula online. Ma, con i miei colleghi, ci siamo attenuti alle regole e, anche i nostri prossimi esami, li sosterremo in video”. L’ansia e l’adrenalina pre-esame nei corridoi delle università ora si covano in chat e, la carta d’identità da esibire ai prof, si carica in pdf nella piattaforma di ateneo e ci penserà la segreteria didattica a videochiamare Viola per confermare che “sì, sei effettivamente tu”.
Se lo smart learning è una realtà, va decisamente peggio per lo smart internshipping: chi aveva uno stage o un tirocinio in corso, in molti casi, li ha visti cancellati in automatico dai provvedimenti regionali o dall’impossibilità di garantire la formazione necessaria agli obiettivi del contratto.
“Mi occupo – ma ormai dovrei dire occupavo – di organizzazione eventi e turismo scolastico” – racconta Alessandra, 27 anni – “l’azienda in cui svolgevo tirocinio ha deciso di interrompere il percorso formativo prima del previsto perché la formazione a distanza era diventata troppo complessa, ingestibile e costosa rispetto al mio contributo”.
Un’ora di tragitto casa-ufficio e il tentativo di tenere il timone fermo nella tempesta: “dal 24 febbraio ho lavorato in smart working, organizzandoci con hard disk e software di backup per spostare quanto più materiale dal server aziendale e poterne usufruire da casa. Lo scambio di materiali e informazioni era molto più pratico”. Ma l’emergenza ha colpito e lasciato il segno nell’organizzazione di eventi e “avendo dovuto annullare tanti progetti a cui stavo lavorando, mi hanno assegnato prevalentemente declinati nell’ambito digitale.” Poi, l’interruzione dello stage: “non abbiamo entrate, ma spese”.
Si ricomincia a camminare nei parchi e guardarsi da lontano ma, il passo della generazione Erasmus, resta lento e in salita: emerge il sommerso di un sistema competitivo che non dà quanto chiede. Si immagina il dopo e – un dopo, i giovani adulti della fase 2, vorrebbero proprio averlo: “ho 25 anni e vorrei una mia indipendenza economica” scrive Andrea, laureato in Relazioni Internazionali con la passione per la radio, “tutti i miei coetanei aspirano a questo e – se avevo cominciato a togliermi qualche soddisfazione con una stage curriculare in radio ediventato poi extracurriculare – adesso non so più quanto dovrò rimandare la costruzione del mio futuro iniziata da quasi 7 anni, ovvero dal primo giorno di università”. Anche per lui, la fase “domani” è in stand-by. Ha imparato a rallentare e a ricucire il suo tempo ma “pur sforzandomi, non riesco ad avere delle prospettive rosee. O peggio, delle prospettive. I concorsi sono sospesi. I tirocini all’estero rimandati o cancellati per la prossima stagione”.
Tutti a casa allora, ma i giovani di più: il 33,5% dei lavoratori ancora in lockdown ha tra i 20 e i 29 anni, una percentuale parlante rispetto al 13,1% tra i 50 e i 59 anni e il 4% degli ultrasessantenni.
“E l’estate non sarà una speranza rassicurante” – spiega Antonia, “29 anni quasi 30”, fitness trainer e una laurea in Scienze delle Attività Motorie e Sportive. Se nei mesi invernali Antonia si sposta in diverse palestre di Bari per consulenze e lezioni di crossfit, la bella stagione ha sempre significato lavoro nei villaggi turistici in Puglia e Cilento. “Nonostante il cambio radicale nelle abitudini legate al fitness e wellness durante il periodo di quarantena” riconosce “la mia professione non è ancora definita tale e molto poco tutelata. Non essenziale, probabilmente. Ho fatto richiesta del sostegno per i lavoratori del turismo e dello spettacolo, aspetto. Dopo due mesi di chiusura obbligata di centri fitness, spero che qualcosa si muova. Ma sulle attività stagionali, è tutto incerto. Nessun saluto al sole in riva al mare quest’anno”.
Quasi il 40% dei lavoratori del turismo che attendono di tornare in attività nel Centro Sud sono giovani, attesta l’Istat. E, i bonus, non bastano a placare una realtà di “forse”.
“Scegli l’università che ti darà più certezze, scegli il master che ti darà più opportunità, impara una seconda lingua – il cinese, l’arabo o il tedesco – e dedicati a quello che ti darà più sicurezza nella vita. Lascia stare le perdite di tempo”: Marco sta terminando i suoi studi in Ingegneria chimica e, per arrotondare, prepara caffè e aperitivi nel bar di paese. Oltre 88mila ingegneri e architetti hanno fatto richiesta di un sussidio alla loro casa pensionistica. E, tanti di loro, sono junior: dipendenti, pagati con buste paghe irrisorie o rimborsi spese. “Sempre alla ricerca spasmodica di un porto sicuro, per poi ritrovarci a navigare in balia delle tempeste dell’incertezza”: lo dice bene, Marco.
La quarantena si allenta ma lo scenario è precario e, in ballo, ci sono affitti e bollette che, “non pagano mamma e papà ma le trasferte del weekend”: Camilla è in apprendistato presso un’agenzia di consulenza e, zaino in spalla, viaggia per l’Italia. Sabato e domenica, non fa differenza. Divide il suo appartamento a Pavia con altre due ragazze, 26 anni ed ex colleghe universitarie: l’ultimo lavoro di squadra, è stato quello di chiedere la riduzione del canone di affitto alla proprietaria di casa. Ma “non riesco a venirvi incontro” è stata la sua risposta su Whatsapp. La loro richiesta si unisce alle centinaia che affollano la protesta “Rent strike”: sul gruppo facebook “EMERGENZA AFFITTI e BOLLETTE COVID-19”, ragazzi e ragazze fuori sede si scambiano consigli ed esperienze per ricercare soluzioni collettive e rivendicare “il diritto alla casa, il reddito di quarantena e l’importanza dell’intersezionalità delle lotte”. L’obiettivo, si legge nei post, è “la creazione di reti di solidarietà per le mobilitazioni di oggi e di domani: è importante socializzare e rendere visibili tutti i casi di difficoltà, sfruttando tutti gli strumenti utilizzabili in questo momento”.
E sono reti quelle che si sciolgono sui social e che raccontano le voci dei “nativi digitali”, sotto scacco anche quando tra “gli eroi in corsia” ci sono anche loro. Roberto è un medico specializzando e posta su facebook un selfie in mascherina con un cartello che parla chiaro:“dopo un torno di 12 ore sorseggio spritz con il mio animale domestico. Più rispetto per i medici specializzandi.” La sua è una voce. Una delle tantissime unitasi alle proteste dei medici specializzandi di Padova, accusati di rappresentare “un pericolo nel momento in cui si inseriscono in ospedale perché escono di casa e hanno una vita sociale molto attiva.”
Le parole del direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Padova Daniele Donato, che indicavano “tra i 36 specializzandi positivi uno solo contagiato dai pazienti e gli altri infettati durante i momenti di socializzazione al di fuori dell’area assistenziale”, sono state smentite da Medicina preventiva ma, il casus belli, ha scoperchiato il vaso: più rispetto per le professionalità dei giovani. Più rispetto per gli specializzandi, in molti casi #schiavizzandi, come racconta uno degli hashtag della protesta social. Impegnati in prima linea in questi mesi di emergenza per sopperire alla mancanza di personale, in molti casi lo hanno fatto con contratti co.co.co e senza tutele: “siamo medici” – afferma il segretariato italiano dei giovani medici – “e in quanto tali siamo e saremo sempre al servizio della comunità per nostra scelta e per il giuramento che abbiamo prestato. Proprio per questo, riteniamo di dover essere considerati alla pari di tutte le altre figure a cui il riconoscimento è stato destinato, non per interesse economico di cui poco ci importa ma per l’aspetto professionale che ci spetta e che ci viene spesso negato”.
Non va meglio nell’ambito privato: Federica è una logopedista di 25 anni che lavora a Roma e, come molte sue colleghe che hanno terminato l’università da poco, “non me la sono sentita di aprire uno studio tutto mio e ho iniziato, poco prima del covid, a lavorare in un centro convenzionato e ad effettuare terapie domiciliari per una RSA, con un contratto da libero professionista. Nonostante mi siano stati imposti giorni e orari, senza che io potessi modificarli”.
Se una parte dell’Italia riparte, la vita professionale di Federica rimane in precario lockdown: “il centro in cui lavoro, come tanti altri, ha chiuso, lasciando tante terapiste a partita Iva senza notizie e senza un sostegno economico, ma soprattutto senza sapere quando e come avremmo potuto riprendere la nostra attività. Solo dopo due mesi stiamo muovendo i primi passi verso il telelavoro, a cui io mi approccio senza un sostegno e senza una formazione.” Ma, a pesare di più sul cuore, il lavoro di cura interrotto: “non rivedrò più quei pazienti perché sono stati assegnati ad altri servizi, non ho potuto salutarli e tutto il lavoro di fiducia e costruzione della relazione, con loro e con le loro famiglie, fatto negli ultimi mesi è andato perduto”.
Rimossa e silenziata, la generazione dei “tardi”millennials – nel tempo sospeso ma prezioso – riparte proprio dalla cura. Con le famiglie in fila alle mense, dietro i banchi dove si distribuiscono cibo e vestiti, negli sportelli psicologici attivati dai centri d’ascolto, nei tragitti di consegna pasti e aiuti. È lì che si conta il 59, 4% dei volontari under 34 esploso tra le file della Caritas. Un dato che è un “boom” e che sorprende.
E, allora, se è proprio questa “la meglio gioventù” che chiede di ripartire, è il momento di prendersene cura. Perché, come raccontano nelle loro storie, “non è detto che ce la faremo, ma non smetteremo mai di provarci”.