Cara Alley,
Senza le nostre relazioni non siamo niente. L’ho sempre pensato. E ora, sospesa come tutti in questa “bolla” spazio-temporale in cui l’arrivo di questo virus ci ha costretti, il pensiero è passato dalla testa alla “pancia” e mi trovo in apnea ad attendere con ansia il momento in cui potremo tornare a “uscire con”. Perché la nostra vita non tornerà come prima quando riapriranno le aziende e i bar (per quanto il rituale del caffè sia tra le abitudini quotidiane che più mi mancano), ma quando potremo uscire fuori dalle nostre case, come e con chi più ci piace e, soprattutto, alla distanza preferita.
Avendo un figlio di 8 anni e mezzo, diventa per me inevitabile una domanda: se questo vale per me, che cosa sente un bambino di fronte all’improvvisa (e duratura) interruzione del suo universo quotidiano di relazioni? È una domanda comune a molti genitori, ma ogni famiglia vive a modo suo e sta elaborando risposte e risorse strettamente personali e soggettive a questo delicatissimo momento di isolamento forzato.
E la scuola? Siamo sicuri che l’istituzione scolastica non debba fornire risposte comuni e unitarie agli interrogativi di questo momento? Uno fra tutti: cosa vuole dire didattica a distanza?
L’ultimo decreto legge del Ministero dichiara che il personale docente garantirà “le prestazioni didattiche nelle modalità a distanza, utilizzando strumenti informatici o tecnologici a disposizione”. Ma come si traduce veramente tutto ciò? Qual è l’obbligo per le scuole?
Dalla chiusura delle scuole a oggi ho conosciuto da vicino insegnanti che hanno reagito in tempi record, scavalcando con atletica agilità paletti e confini burocratici e tecnologici. Qualcuno ha passato giornate a chiamare casa per casa ogni famiglia per trovare soluzioni e non lasciare indietro nessuno; altri, fino ad allora capaci a stento di utilizzare un computer, si sono fatti aiutare da colleghi più aggiornati di loro per essere più adeguati alla nuova situazione; altri ancora, in attesa che la scuola fornisse risposte e strumenti, si improvvisavano con video autoprodotti sul proprio smartphone proponendo attività o anche semplicemente periodici saluti da mandare ai bambini per non lasciarli soli. Per questo penso che gli attacchi agli insegnanti che “guadagnano e non lavorano” siano non solo offensivi, ma privi di fondamento: ne ho visti tanti lavorare indefessi, anche a Pasqua (persino contro la scuola che imponeva, come da “programma”, la sospensione delle attività per le “vacanze”), magari a loro volta smarriti perché privati come tutti delle proprie relazioni o in lutto dopo aver perso una persona cara; o in difficoltà come altri perché, oltre che docenti, sono genitori, o figli di anziani in difficoltà.
Ma ho visto anche scuole bloccate e divise al loro interno tra chi propone didattica a distanza da sempre e chi si ostina a mandare schede, compiti e pagine via WhatsApp delegando alle famiglie la didattica dei loro figli. Alcune scuole hanno applicato lezioni on line solo in quarta e quinta elementare. E potrei capirlo, se ci fosse per le prime, le seconde e le terze un progetto diverso: nonostante veda con i miei occhi bambini di seconda elementare seguire con gioia lezioni on line (naturalmente con orari e frequenza adatti all’età: si parla di solito di lezioni in piccoli gruppi, una o due ore tre volte a settimana), potrei abbracciare e sostenere un progetto ad hoc, con appuntamenti cadenzati e bilanciati in base all’età, proposte didattiche diverse, momenti periodici d’incontro on line più orientati a mantenere le relazioni tra compagni e a non perdere il contatto con i maestri – che nella scuola primaria, non dimentichiamolo, sono spesso un prezioso punto di riferimento affettivo.
Ma l’assenza non la comprendo, anzi la reputo una mancanza di cui la scuola dovrebbe sentirsi responsabile. E quando cerchi di alzare la mano e chiedere perché rischi di finire impigliato nella rete delle “non responsabilità”: “Che colpa ne hanno i maestri, se non sono capaci come altri di navigare in internet e padroneggiare le tecnologie?” “Come può essere colpevole un preside che sceglie di rispettare l’autonomia dei suoi insegnanti demandando a loro la scelta sulla didattica delle classi?” “La scuola non era forse impreparata come tutti a questo evento?”. Queste domande rimbalzano tra genitori e scuola da settimane, e la rete delle non responsabilità a volte imbriglia anche i miei pensieri impedendomi di trovare il bandolo della matassa.
Tra le obiezioni sulla didattica a distanza ne resta una ragionevole: le lezioni on line rischiano di lasciare esclusi tutti i bambini che non hanno device o connessioni adeguate. Senza entrare nella spinosa questione dei fondi dati alle scuole per colmare questa mancanza, grazie ai quali molte famiglie in difficoltà hanno potuto avere PC e device, ma non sempre connessioni e soluzioni reali, mi chiedo: affidare compiti e attività ai genitori – con un programma scolastico che avanza veramente, con tanto di voti sul registro elettronico – non lascia comunque indietro tutti i bambini che non hanno la possibilità di essere seguiti per difficoltà materiali o culturali dei loro genitori? O semplicemente perché a casa ci sono altri 3 fratelli da seguire? Alcune famiglie sono comunque letteralmente sparite, anche (e forse ancor più) senza lezioni on line; altre dichiarano ai loro rappresentanti di classe che non ce la fanno, che non si sentono all’altezza delle materie da spiegare e i loro bambini non riescono a fare i compiti in autonomia.
Prima o poi le scuole riapriranno, ma le classi saranno divise tra chi ha avuto la fortuna di essere seguito e chi non l’ha avuta: siamo sicuri che questa divisione non sia evitabile? Non è fra i compiti della scuola pubblica garantire a tutti i bambini lo stesso cammino didattico (e pedagogico)?