PostCovid, la partita non è finita e c’è bisogno del gioco di squadra

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Un nuovo decreto. Nuove regole. Come stiamo vivendo da cittadini l’applicazione di nuove norme e restrizioni? Norme e regole che io, in quanto arbitro, sono solita far rispettare in campo, ma che in questo momento siamo tutti chiamati a seguire anche fuori dal terreno di gioco. Proprio in questo contesto, il tema del rispetto diviene centrale, ancor più di prima. Rispetto non solo delle norme che ci sono state poste, ma soprattutto rispetto nei confronti degli altri e di noi stessi.

Qualsiasi appassionato di sport sa che senza rispettare le regole non si può disputare un incontro e così, ora, il rispetto delle norme è fondamentale per salvaguardare la nostra vita e quella degli altri.  Ricordiamoci che le regole non nascono con l’intento di ostacolare le persone, così come la figura dell’arbitro non nasce per limitare il gioco, ma bensì per tutelare l’individuo e garantire il corretto svolgimento dell’incontro.

Questo è il momento in cui ci viene richiesto di giocare come dei campioni. Ė una finale in cui si vince con la forza della squadra, senza sotterfugi, nel rispetto dei compagni, degli avversari, ma soprattutto delle regole di gioco e di chi le garantisce. Ė il momento in cui il capitano della squadra vede nell’arbitro un alleato che permette il più efficace svolgimento del match e invita i propri compagni a collaborare nel rispetto delle regole. Questa è la partita che vede l’applicazione concreta di tutti quei valori che per anni abbiamo imparato sui campi da gioco. Valori che permettono il superamento delle diversità e che inducono ognuno di noi ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni.

Ma come possiamo pretendere rispetto quando siamo noi i primi a non rispettare il prossimo?

Entra dunque in gioco un secondo aspetto, quello della credibilità delle nostre azioni e decisioni. Una credibilità che è messa in discussione quando ci si trova davanti ad una situazione critica e inaspettata. Così, oggi, ci ritroviamo a giocare una finale unica, con un team di giocatori inesperti, allenatori alle prime armi e un arbitro che proviene da tutt’altro sport. Non siamo credibili perché non abbiamo l’esperienza necessaria per poter affrontare con prontezza la situazione, ma soprattutto non ispiriamo fiducia e veniamo per lo più criticati. Nonostante ciò, non ci rimane che metterci in gioco ed iniziare a supportarci l’uno con l’altro.

Tanto più una squadra è unita, tanto più si è pronti a coprire un eventuale errore e far fronte alle avversità. Nella pallanuoto, l’azione è corale e richiede il supporto dell’intera squadra. Nel rugby, per andare in meta bisogna avanzare, ma passando la palla indietro. Un concetto ambiguo, ma che ha intrinseco un forte senso di appartenenza e sostegno reciproco. É un vero e proprio gioco di squadra in cui tutti sono necessari e nessuno è escluso. Nei nostri sport, l’individualità non è di casa, è fine a stessa perché in meta ci si va insieme supportandosi. Si vince e si perde come squadra, si cade e ci si rialza insieme, non come singoli individui. Come ricordava Al Pacino nell’epico discorso alla fine di “Ogni maledetta domenica” (lì si trattava di football americano!).

Così, oggi noi cittadini siamo chiamati a supportare chi è più debole di noi, a placcare insieme questo virus che sta stravolgendo le nostre vite e accettare il fatto che solo uniti potremo arrivare alla nostra meta. Il 4 maggio non sarà la fine. Sarà l’inizio di una nuova sfida, in cui ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte.

  • Matteo Calcaterra |

    Mi piacerebbe che fosse vero quello che scrive, che davvero ci fosse una unione tra allenatori, genitori e arbitri soprattutto nelle categorie pre-agonistiche.
    La triste realtà però è che tutto ciò non accade perché nel nostro paese NON ESISTE cultura sportiva.
    L’unica cultura che conosciamo, anche sui campi da calcio, è “vince chi grida di più” o “è colpa dell’arbitro” o ancora di più “colpa del mister se mio figlio non gioca o gioca male..”
    Tutto questo lo può facilmente verificare se un sabato si reca in qualsiasi campetto, di una squadra o di un oratorio in cui si sta giocando una partita.
    L’errore è proprio non trasmettere ai più giovani ciò che la cultura sportiva presuppone, perché per primi sono gli adulti a non sapere cosa essa sia.
    Io alleno e arbitro ragazzi da 6 a 14 anni ormai da tempo e sono purtroppo disilluso da questo mondo che mi ha dato tanto da giocatore e di più, a livello umano, da allenatore.
    Ma purtroppo sono veramente pochi i casi in cui la cultura dello sport come insegnamento prevale.
    E la nostra società ne è purtroppo lo specchio.

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