Quando mi sono seduta al mio posto sull’aereo che da Boston mi avrebbe portato a Milano, il ragazzo di fianco a me, con un forte accento irlandese, mi ha chiesto: “Torni a casa o vai a trovare qualcuno?”. Sono rimasta molto colpita dalla domanda, perché, per quanto semplice, necessitava di una risposta assai complessa. Vivo negli Stati Uniti da più di venticinque anni, cioè più della metà della mia vita. Ma sono di Milano, città che mi ha formata e mi ha fatta diventare quella che sono, nel bene e nel male. Quindi sì, in un certo senso torno a casa. In realtà vado a trovare qualcuno, e, questa volta, anche a lavorare.
Ho finito da qualche mese di scrivere il mio terzo libro, Loro Fanno l’Amore (E Io M’incazzo), edito da Sonzogno, e torno a Milano per promuoverlo. Tre settimane lontano dai miei figli, da mio marito e dai miei due cagnoni, che finora sono quelli che mi mancano di più.
Nel corso del resto del viaggio, una piccola ansia mi risaliva a tratti, al pensiero che questo libro, in cui cerco di capire come parlare di sessualità ai miei figli, poteva essere stato letto da mia madre, che di sesso non ci aveva mai parlato. Pensavo che lo avrebbe affrontato con un certo astio e che non avrebbe colto l’ironia, malgrado sia la più prominente chiave di lettura. Temevo che si sarebbe sentita in qualche modo giudicata, dato che parlo anche di lei, che avrebbe sentito il dito puntato su se stessa e la sua generazione come esempio di cosa non fare con i figli: negare l’esistenza della sessualità e sperare che non se ne parli mai.
Il mio approccio educativo, invece, influenzato dalla parte più liberale dell’America, mi ha imposto di affrontare questo discorso con i miei figli in modo schietto, senza arrossire mai, anche quando (spesso) ha avuto la netta sensazione di oltrepassare la linea di demarcazione fra un rapporto di amicizia e quello tra madri e figli. Detto tra noi, benché avessi fatto mille sforzi per sembrare una donna moderna, affermando mille volte che il sesso è la cosa più naturale del mondo, anzi, appagante e piacevole, ho fatto degli scivoloni imbarazzanti con le mie figlie, contraddicendomi quasi sempre. Ma almeno posso dire di averci provato.
Mi immaginavo dunque mia mamma, seduta sulla sua poltroncina preferita in cucina, con in mano il libro e in viso un’espressione di disappunto, di profonda delusione. All’atterraggio, nove ore dopo, non si trattava più solo di ansia: il panico si era impadronito di me.
Ho preso un taxi, ho citofonato con l’emozione di sempre, e sono salita. Quarto piano. L’ascensore arriva direttamente in sala. Mia madre in piedi, sulla porta, in viso l’emozione di ogni volta che ci rivediamo dopo tanto. L’abbraccio è stato lungo, pieno di tante cose. “Che bello vederti! Sono emozionata!”, mi dice cercando di trattenere le lacrime. Passando per il corridoio per andare in camera mia eccolo lì, il libro, appoggiato sulla mensola della cucina. Mi sono trattenuta dal chiedere, per non rovinare un momento tanto atteso, tanto emotivo e anche piuttosto raro. Era più di un anno che non tornavo a Milano. Tanto, troppo tempo.
Dopo un paio d’ore di chiacchiere frenetiche, mia mamma si è seduta sulla sua poltroncina preferita della cucina e ha annunciato che avrebbe fatto un pisolino. “Ma prima leggo un po’ del tuo libro. Molto bello! Leggendolo sembra di sentirti parlare. Mi ha stupito di come scrivi così tanto di me”.
Come sempre, mia madre mi spiazza. Ero pronta a dover dare delle spiegazioni, a placare in qualche modo una sua delusione, una sua critica nei confronti di quello che avevo scritto quando mettevo a confronto due epoche, la sua e la mia. Non avrei proprio voluto bruciare in un attimo l’atmosfera di felicità e di affetti ritrovati che si era creata al mio arrivo e scheggiarla con rimproveri, insoddisfazioni. In fondo, avevo cominciato a prepararmi per questa possibilità dalla partenza da Boston, decine di ore prima.
E invece avevo sbagliato tutti i miei calcoli, ancora una volta. Avevo sottovalutato la capacità di mia madre di saper leggere dietro le parole scritte un senso più profondo, più universale. D’un tratto ho riconosciuto la vicinanza profonda che c’è tra me e lei, malgrado le distanze geografiche. Era ancora lì, intatta, la nostra connessione, e si era finalmente risvegliata. In quell’istante noi stesse eravamo universali: madri, figlie, donne. Persone, che cercano di fare del loro meglio nel crescere i loro figli, e sanno che quel meglio non sarà mai abbastanza. Ma ci provano e, alla fine, quando si reincontrano, nel momento giusto, nel punto giusto, scoprono che in qualche modo ci sono riuscite.
Le schiocco un bacio in fronte, sigillo così quell’istante e la lascio leggere, tranquilla. Vado in sala, mi accascio sul divano e sorrido di me stessa.
I viaggi, a volte, non si fanno solo in macchina o in aereo. A volte, portano lontano, molto più lontano. Fino a qualcosa che chiamerai “casa”: come questo bacio sulla fronte della mia mamma.