Oltre le quote di genere nei cda

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L’Italia è, ancora oggi, un Paese nel quale le disuguaglianze di genere sono molto radicate e diffuse. Lo certificano molteplici studi internazionali, tra cui il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, che ha analizzato i dati di 153 paesi su quattro dimensioni: partecipazione alla vita economica e opportunità; educazione e formazione; salute e sopravvivenza; conferimento di potere (empowerment).

Il Rapporto posiziona l’Italia al 76° posto in uno scenario di peggioramento: abbiamo perso altre 6 posizioni. Nella regione Europa occidentale e Nord America siamo 19°, subito dietro agli Stati Uniti e davanti a Grecia, Malta e Cipro. Il nostro Paese ha registrato dati estremamente negativi proprio nell’indicatore economico (117° posto), e in particolare per il divario nello stipendio percepito a parità di tipologia di lavoro, aspetto per il quale l’Italia precipita ulteriormente nella lista, fino alla 126° posizione. Andiamo male anche per quanto riguarda salute e sopravvivenza (118°), mentre un po’ meglio per quanto riguarda l’educazione (55°) e per l’empowerment (44°).

In questo quadro desolante, infatti, il nostro fiore all’occhiello è tanto criticata (anche dalle donne) Legge Golfo-Mosca, che ci ha portato a scalare velocemente e inesorabilmente le classifiche internazionali relative alla rappresentanza nei consigli di amministrazione, come è successo agli altri paesi che hanno introdotto le quote di genere. A dimostrazione del fatto che senza azioni decise la strada verso la parità è tutta in salita e lunghissima.

Lo scorso anno, in previsione della scadenza della Legge si era pensato a varie iniziative, tra le quali l’inserimento diretto del rispetto di una quota almeno pari al 30% negli statuti delle società quotate (Enel, Leonardo, Snam), dove invece al momento era inserito solo un rinvio alla legislazione vigente. In tante avevamo la sensazione che senza vincoli legislativi la scadenza della Legge avrebbe potuto giustificare un ritorno al passato. La “restaurazione” era nell’aria.

Per evitare questo effetto, già nel 2018 il Comitato per la corporate governance, presieduto da Patrizia Grieco, aveva introdotto una modifica nel Codice di autodisciplina invitando le società a modificare gli statuti per rendere permanente la quota del 30% nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. E qualche società aveva modificato la statuto in questo senso.

A dicembre 2019 è però intervenuto il legislatore, che ha adottato due norme in materia, non allineate, nel Decreto fiscale e nella Legge di bilancio. Il primo prevede che la quota riservata al genere meno rappresentato sia pari ad almeno 30% per sei mandati (tre ormai quasi scaduti per la generalità delle società quotate in borsa e tre futuri), mentre la seconda prevede che per sei mandati a decorrere dall’entrata in vigore della stessa legge la quota riservata sia pari ad almeno 40%, salvo il primo mandato per le società di nuova quotazione, che resta al 20%. Pur con mille perplessità e critiche (di posizione), anche da parte di importanti associazioni, è questa seconda regola che è destinata a prevalere, in quanto successiva.

Le critiche si sono incentrate sulla durata dell’obbligo, che sarebbe in odore di incostituzionalità, sul livello troppo elevato rispetto alle esperienze straniere, sulla severità del regime sanzionatorio e sulla generalità di applicazione, in quanto colpisce anche le imprese di minime dimensioni, purché quotate.

La proroga delle quote di genere, a mio parere, deve invece essere salutata con favore. La quota del 30% – o meglio, qualsiasi quota – viene percepita come il livello da raggiungere, non come il livello minimo verso la parità. Negli anni scorsi ci si è quindi fermati al minimo indispensabile per essere rispettosi della Legge Golfo-Mosca e i rari casi in cui si è raggiunta una quota superiore sono stati segnalati come delle eccezioni. Con la nuova legge facciamo così un altro passo avanti verso la parità. Speriamo che alla scadenza di questa nuova norma, tra 18-20 anni, le quote di genere non siano più necessarie e queste azioni facciano parte della storia.

Una volta chiuso questo capitolo, almeno per qualche anno, e sulla spinta del successo delle quote di genere nei consigli di amministrazione, si deve ora allargare lo sguardo, promuovendo nel nostro Paese la realizzazione dell’Obiettivo 5 degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle NU (SDG), che, tra le varie azioni, si propone di ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Tra i vari punti, l’Obiettivo 5.5 intende garantire piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership a ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica.

Cosa dobbiamo fare? Lo sviluppo di modelli femminili di riferimento deve essere la base per migliorare la posizione delle donne nel mondo del lavoro, in tutti i settori, per quanto riguarda il ruolo e la retribuzione. Dobbiamo impegnarci – con gli uomini ovviamente – per far progredire in modo costante le donne in tutta la catena organizzativa della società e delle imprese, per garantire che le donne abbiano pari opportunità nella progressione della carriera, attraverso piani di successione che tengano conto e promuovano le professionalità femminili al pari, appunto, di quelle maschili, e che le donne siano retribuite come gli uomini, a parità di lavoro.

C’è molto da fare, ma bisogna farlo. L’invito è rivolto agli uomini, che occupano ruoli chiave nell’organizzazione. Devono superare il timore che lo sviluppo del lavoro femminile li lasci da parte, devono invece pensare al miglioramento sul sistema economico generale che tale sviluppo e la conseguente diversità portano con sé, come dimostrano ormai da tempo le ricerche. Ed è rivolto alle donne, che, una volta raggiunti i ruoli decisionali, si ricordino delle altre donne e si impegnino per far salire l’ascensore.