Qualcosa si è fatto. Molto resta da fare. Potremmo riassumere così la situazione delle iniziative parlamentari e del governo per le donne in Italia. La Manovra ha regalato, in zona cesarini (permettetemi la metafora tanto i parlamentari italiani sono per il 70% uomini e la capiranno agevolmente), grazie a qualche emendamento la proroga (a sei mandati) e l’aumento delle quote di genere negli organi societari delle società quotate (su cui per altro ora Consob ha aperto una consultazione lampo, dal momento che il 40% risulta inapplicabile nei collegi sindacali di 3 membri). Oltre ad aprire la strada al professionismo delle atlete concedendo sgravi contributivi per il 100% per tre anni alle società che faranno contratti alle sportive (previa naturalmente decisione delle singole federazioni di riconoscere il professionismo nelle proprie discipline).
Sul fronte della lotta alla violenza contro le donne, poi, sono stati stanziati 12 milioni di euro: una cifra considerata troppo esigua, ancora, dalle associazioni che si occupano da decenni del problema.Su questo fronte, inoltre, un emendamento alla manovra ha stabilito che nessuna richiesta di risarcimento, né di crediti vantati dallo Stato, sarà più a carico degli orfani di femminicidio, né minorenni né maggiorenni “non economicamente autosufficienti” purché “estranei” ai delitti in famiglia. Inoltre è stato stanziato un milione di euro in più per gli orfani di femminicidio.
Si è fatto qualcosa, anche se restano misure molto timide, sul fronte dei padri: la durata del congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente passa a 5 giorni per il 2019 e 7 giorni per il 2020. Un passo ulteriore, anche se non risolutivo, verso la condivisione dei carichi familiari, che potrebbe portare a un maggior equilibrio anche nel mondo del lavoro. Ora si sta valutando la possibilità di estendere il congedo obbligatorio per la nascita e l’adozione di un figlio da cinque a sei mesi prevedendo che il papà ne utilizzi il 20% quindi un mese. Il problema, in questo caso, sarà lo stanziamento dei fondi necessari dal momento che l’80% dello stipendio nei mesi di maternità viene corrisposto dall’Inps.
E’ stato, inoltre, rinnovato il bonus bebè per ogni figlio nato o adottato dal 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2020. Il finanziamento sarà di 348 milioni nel 2020 e 410 milioni nel 2021. Stabilizzato e aumentato, inoltre, il contributo economico per il pagamento di rette degli asili nido: dal 2020, il buono viene incrementato di 1.500 euro per i nuclei familiari con un valore Isee fino a 25.000 euro, e di 1.000 euro per i nuclei familiari con un Isee da 25.001 euro fino a 40.000 euro. Per le mamme che non possono allattare, infine, è riconosciuto un contributo fino a un massimo di 400 euro l’anno per neonato, fino al sesto mese di vita, grazie all’istituzione di un fondo con una dotazione di 2 milioni di euro per il 2020 e di 5 milioni per il 2021.
Il fondo per le adozioni internazionali è stato, invece, incrementato di 500.000 euro annui. Mentre per il sostegno alle famiglie è stato istituito un “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”, con una dotazione pari a 1.044 milioni di euro per l’anno 2021 e a 1.244 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2022.
Sul fronte della salute, saranno investiti 2 milioni di euro per 2 anni per il sostegno dello studio, della ricerca e della valutazione dell’incidenza dell’endometriosi nel territorio nazionale. Le risorse destinate alla ricerca scientifica non potranno essere inferiori al 50% della dotazione del Fondo.
Perché ho voluto fare un riassunto di quanto già fatto? Per evitare che alle proposte che seguono si risponda con quanto sopra. Adesso che si è aperta la strada, è ora di proseguire con fermezza per recuperare i ritardi che abbiamo accumulato rispetto agli altri Paesi europei. Ritardi che ci hanno fatto scivolare al 76esimo posto nella classifica Global Gender Gap stilata dal World Economic Forum.
Si potrebbe cominciare da iniziative che non richiedono (quasi per nulla) coperture finanziarie ma che danno indicazioni sulla direzione che si vuole seguire. A cominciare dalle famiglie.
- COGNOME MATERNO: esistono diverse proposte di legge a riguardo. Una del marzo 2018 è dell’on. Laura Boldrini e suggerisce che siano i genitori a decidere quale cognome dare al figlio, sia nato all’interno di un matrimonio sia al di fuori, e contempla la possibilità che si possano dare ai figli anche entrambi i cognomi (e in caso di mancato accordo quest’ultima è la soluzione che viene adottata). Su questo tema si è spesa negli ultimi anni Rosanna Oliva De Conciliis, presidente dell’associazione Rete per la Parità. Una norma non costosa ma che darebbe un’indicazione fondamentale in tema di genitorialità.
- MATERNITA’: con la legge di Bilancio dello scorso anno passò anche la riforma del congedo di maternità (uno dei più avanzati a livello europeo). La materia ha sempre diviso, anche le stesse donne: da una parte chi vuole poter decidere quando assentarsi dal lavoro prima del parto, dall’altra chi vorrebbe vedersi garantito un diritto. Sarebbe opportuno istituire un monitoraggio a livello nazionale per avere dati e poter raccogliere eventuali segnalazioni di costrizioni da parte dei datori di lavoro. Se è vero, infatti, che ci sono realtà in cui le donne che lavorano possono decidere, è pur vero che ci sono realtà, invece, in cui una donna potrebbe sentirsi “costretta” a lavorare fino al parto.
- RIFORMA DEL DIRITTO DI FAMIGLIA: un primo tentativo di revisione e razionalizzazione del quadro normativo – codicistico in tema di famiglia e minori c’è stato nel 2013, con il decreto attuativo della la legge n. 219 del 2012. Da allora diverse le novità normative che si sono susseguite dal divorzio breve alla legge Cirinnà sulle unioni civili fra persone dello stesso sesso ( per altro è di questi giorni il pronunciamento della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha di fatto riconosciuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso sulla base delle regole sulla libera circolazione delle persone nei paesi UE). Un aggiornamento sarebbe auspicabile, ma fatto in modo strutturato e coordinato con la consultazione di tutte le istituzioni che quotidianamente affrontano nei Tribunali la questione.
Dalle famiglie all’educazione. Tanto si può fare nelle scuole, a partire dalle primarie, per una diversa cultura, che aiuti a combattere alla radice la violenza sulle donne, gli stereotipi, le discriminazioni sul lavoro, gli errori nell’orientamento allo studio. Certo che investire nella formazione degli insegnanti sarebbe alla basa di un piano serio, ma abbiamo parlato di azioni che non richiedano coperture finanziarie.
- INDICAZIONI DEL MINISTERO DELL’ISTRUZIONE A TUTTE LE CASE EDITRICI DI TESTI SCOLASTICI: nei libri di scuola continuano a sopravvivere stereotipi da anni ’50. Sarebbe opportuno che il ministero delineasse delle linee guida da diffondere alle case editrici e alle scuole relative ai libri da adottare. Se fosse poi istituito un ufficio competente che possa raccogliere eventuali segnalazioni e possa fare un esame per dar vita a un rapporto di monitoraggio ogni due anni, sarebbe possibile “misurare” l’evoluzione dei testi. Un’iniziativa in tal senso sarebbe anche uno sprone per le case editrici a prestare maggiore attenzione al tema.
- ISTITUZIONE DELL’ORA DI EDUCAZIONE SESSUALE PER LE CLASSI QUINTE DELLA SCUOLA ELEMENTARE. Lo Studio Nazionale della Fertilità del Ministero della Salute (2018) ci dà una fotografia immediata dell’educazione sessuale dei nostri figli: oltre l’80% degli adolescenti intervistati trova/ha trovato su Internet informazioni “sulla sessualità e sulla riproduzione”; la seconda fonte di informazione sono gli amici, al 40/45%, la terza la famiglia al 25% e solo ultima la scuola con il 20% (vale a dire un adolescente ogni 5). Demandare ad internet una parte così rilevante della formazione delle nuove generazioni vuol dire abdicare a un ruolo importante sia per le famiglie sia per la scuola.
- ORIENTAMENTO DELLE RAGAZZE. Alla fine di un convegno, anni fa, mi avvicinò una 16enne e mi disse che alle medie quando disse al professore che si occupava di orientamento che avrebbe voluto fare odontoiatria, lui cerco di dissuaderla perché era una professione da maschi. Per fortuna la ragazza in questione seguì le proprie inclinazioni. Resta il fatto che non tutte hanno chiarezza della strada da intraprendere e decisione tale. Sarebbe, quindi, opportuno lavorare maggiormente all’interno delle scuole per un orientamento che sia meno dettato da stereotipi e che tenga conto delle inclinazioni delle ragazze e allo stesso tempo delle richieste del mercato. Altrimenti continueremo a investire per avere le casalinghe più colte d’Europa.
Il nodo lavoro è, certamente fondamentale, ma in questo caso spostare l’ago della bilancia senza prevedere stanziamenti sembra ben più complesso.
- OCCUPAZIONE: Negli ultimi decenni diverse le proposte in questa direzione e qualcosa era stato fatto in passato sul fronte degli sgravi fiscali per cercare di ri-inserire, almeno nel Sud Italia, le donne nel mondo del lavoro. Il tema, però, è troppo complesso per risolverlo con la concessione di detrazioni e sgravi alle imprese, se non accompagnati con un complesso di azioni a supporto della famiglia e dell’orientamento degli studi delle ragazze.
- GENDER PAY GAP: Qualcosa di più, invece, si potrebbe fare sul fronte del divario salariale di genere, che non risparmia l’Italia, come d’altra parte il resto dei Paesi europei. Forse non tutti sanno che anche da noi esiste una normativa al riguardo: si tratta dell’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. La legge prevede che le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti siano tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile. I dati andrebbero consegnati alle rappresentanze sindacali e alle consigliere di parità. In caso di non ottemperanza la ratio finale è la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda. Eppure di dati , soprattutto sullo spaccato delle retribuzioni per genere a parità di livello e mansioni, non si parla. Dovrebbe averli il ministero del Lavoro: renderli pubblici, se non azienda per azienda come invece fanno in Gran Bretagna, potrebbe essere utile almeno a rendere consapevoli le donne della differenza della loro busta paga rispetto a quella degli uomini.
- QUOTE DI GENERE NEGLI ORGANI DELLE PUBBLICHE: Se il monitoraggio sulle società quotate, in base alla legge Golfo-Mosca, è costante e pubblico grazie al lavoro della Consob, sulle società pubbliche anche a livello territoriale sarebbe necessario riprendere la diffusione dei dati, che il dipartimento delle Pari Opportunità faceva periodicamente.
- RAPPRESENTANZA DONNE NEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA: la proposta di legge, in questo caso, porta la firma dell’On. Cristina Rossello è a l’obiettivo di “definire un quadro normativo che permetta l’equilibrio tra i sessi nella rappresentanza dei magistrati presso il CSM”.
L’elenco potrebbe essere ancora più lungo e probabilmente ascoltando le associazioni che sul territorio nazionale si occupano, magari in ambiti diversi, della parità di genere si potrebbe stilare un programma più complesso e articolato. L’obiettivo, qui, era solo di mostrare quante cose si possono fare senza andare a intaccare le casse dello Stato. Partiamo da cose semplice, che richiedono solo buona volontà, iniziativa e monitoraggio. Se avviamo la macchina e arrivano i primi risultati, con il tempo cambierà anche la politica di questo Paese. E magari prima o poi avremo anche noi una premier donna (per merito s’intende, non per quote!)