#Prevenire i femminicidi: col progetto “Questo non è amore” 500 notizie di reato in tre anni

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La presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio lo ha detto a chiare lettere. Nelle scorse settimane, ha spiegato Valeria Valente,  “abbiamo visto quante donne siano finite nella spirale della violenza, pur avendo denunciato. Lo dirò fino alla nausea: le donne che denunciano vanno protette, occorre rafforzare le tutele a favore delle vittime, investire sulla formazione del personale, sugli organici dei tribunali e sui centri anti violenza”.

Secondo gli ultimi dati forniti dalla polizia di Stato, da gennaio ad agosto 2018 i femminicidi considerati nel solo ambito familiare e affettivo (cioè escluso ad esempio il caso del violentatore che finisce per uccidere una sconosciuta, ad esempio) sono stati 32, con un trend crescente rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In generale nei nove mesi del 2018 si registra un trend di diminuzione degli omicidi volontari del 19% (da 286 a 231 morti) che conferma un andamento già registrato negli ultimi 10 anni: ma, anche in questo arco temporale, se gli uomini vittime di omicidio volontario diminuiscono del 28%, il numero delle donne uccise cala solo di 3 unità (da 97 a 94 casi). In questo quadro, rientra la categoria (non esistente a livello giuridico ma molto usata nella praticità) di femminicidio, cioè dell’ uccisione di una donna da parte di un uomo proprio in quanto donna, come atto estremo di prevaricazione e supremazia: sono 32 i casi nel solo ambito familiare. Non si possono infatti ricomprendere sotto questa categoria, pur essendo casi avvenuti in famiglia, gli omicidi di donne per altre ragioni, tipo il nipote che uccide la nonna per l’eredità o il marito che uccide la moglie per metter fine alle sue sofferenze di malata terminale.

Caruana (Direzione centrale  anticrimine), l’importanza di formazione e strutture specializzate

Sul versante della prevenzione dei femminicidi, la polizia di Stato ha dato vita a diverse iniziative, ma anche sul piano repressivo agisce usando modalità particolari. Come Direzione centrale anticrimine, racconta Angela Caruana, vice questore aggiunto dell’ufficio affari generali della Dac, la polizia ha iniziato dagli anni ‘90 a occuparsi del problema della violenza di genere,  investendo sulla formazione del personale . La formazione è appunto al centro anche del piano anti violenza voluto dal dipartimento per le Pari opportunità. “Sotto il profilo della repressione abbiamo già dagli anni ’90 istituito sezioni specializzate all’interno della Squadra mobile  dedicate alla violenza di genere in senso lato”, spiega  Caruana. La polizia agisce “con una struttura dedicata al contrasto alla violenza di genere. Le vittime vengono sentite all’interno di spazi dedicati, e c’è un setting di ascolto protetto. Si tratta di ambienti più confortevoli. Tutti i colleghi che vi lavorano sono altamente specializzati in materia”.

Sotto il profilo preventivo c’è ad esempio il progetto “Questo non è amore” che punta a diffondere una diversa cultura di genere, fondata sul rispetto e sulla parità. La polizia arriva con dei camper e stand informativi nelle città, nelle piazze, nelle scuole per dare alla gente la possibilità di parlare di violenza contro le donne, chiedere informazioni, denunciare. Il progetto, partito nel 2016, ha contato 76mila contatti. Persone che sono entrate dentro il camper per raccontare la loro storia, o chiedere consiglio per un’amica, o chiedere un semplice chiarimento. All’interno del camper le donne trovano, oltre agli agenti di polizia specializzati, un’equipe completa formata anche da psicologici e rappresentanti dei servizi social. Dai 76mila contatti registrati sono nate 500 segnalazioni all’Autorità giudiziaria, cioè 500 notizie di reato che, altrimenti, magari  non sarebbero nate. Per il semplice fatto che molte volte le donne vittime non hanno il coraggio di entrare in un ufficio di polizia e si sentono invece incoraggiate, racconta Angela Caruana, nel trovare il camper che viene vicino a loro, nelle piazze, nelle scuole.

Nel 2019  si contano 5mila interventi col Protocollo Eva, +34%  

Un altro progetto preventivo della polizia di Stato che ha dato un buon successo è il protocollo Eva. Dal primo gennaio al 31 agosto si contano oltre 5mila interventi con una variazione percentuale, rispetto allo stesso periodo del 2018, del 34 per cento.  Il protocollo in questione codifica le liti in famiglia e prevede, per gli agenti che entrano in caso, un iter preciso, delle best practice, da seguire. Viene poi elaborata una “processing card”, composta da schede che i poliziotti devono compilare ed inserire negli archivi informatici di polizia quando intervengono a seguito di segnalazione di violenza di genere. Da questo archivio, la Sala operativa potrà trarre informazioni essenziali quando invia la volante sul posto: informazioni su chi ha richiesto l’intervento, sull’eventuale presenza di armi censite all’interno dell’abitazione, su eventuali precedenti di polizia a carico delle persone coinvolte. Una seconda fase, molto delicata,  riguarda l’approccio. I poliziotti, adeguatamente formati, devono intervenire con delicatezza, ascoltare le parti in luoghi separati dell’abitazione, verificare l’eventuale presenza di bambini e capire se questi hanno assistito all’evento. Ogni dettaglio, nell’interesse delle donne e degli eventuali minori presenti, va considerato e annotato