Una recente ricerca del Center for Talent Innovation rivela che il 30% delle persone in azienda ha qualche forma di disabilità. Di questi, il 13% ha una disabilità evidente, e che quindi è nota a colleghi e capi, il 26% ha una disabilità che a volte è visibile e a volte no, e il restante 62% ha una disabilità che non “si vede”. Questo mette nelle mani delle persone la scelta di parlarne o meno: di fare quello che potremmo definire “coming out”. Il termine “coming out” si riferisce tradizionalmente al dire che si è omosessuali, ma esattamente allo stesso modo può riguardare il dire altre cose di sé che:
1) altrimenti resterebbero ignote
2) sono davvero importanti nella nostra vita e nella nostra quotidianità, al punto da avere un impatto su chi siamo, come ci sentiamo, come lavoriamo e viviamo.
“Mettere fuori” queste caratteristiche di sé è tutt’altro facile: se sono nascoste è perché il tradizionale design della nostra società le considera anomale e quindi possederle ci fa sentire al di fuori della norma. Essere “diversi” e non dirlo è una maschera molto efficace, che va indossata ogni giorno e ci consente di mimetizzarci. Ma ha un costo. Nel caso della disabilità:
solo il 39% delle persone dello studio citato ne ha parlato col proprio manager, ancora meno (24%) ne ha parlato con i colleghi, solo il 21% con i propri HR e il 4% con i clienti.
Sei persone su dieci quindi non ne parlano: indossando tutti i giorni la maschera della “normalità”. E’ facile immaginare che questo costi fatica, costringendo a una dissonanza cognitiva che fa tacere una parte molto rilevante di sé. Le persone che fanno questa scelta, dicono di farlo per ragioni come:
1) la paura di venir discriminati;
2) la preoccupazione che questo cambi la loro relazione con i colleghi;
3) il timore che il loro capo li consideri di conseguenza meno abili o addirittura pigri, e che la loro carriera ne risenta.
Eppure, i lavoratori con disabilità che fanno “coming out”
“hanno il doppio delle probabilità di sentirsi regolarmente felici sul lavoro di quelli che non lo fanno (65% vs 27%). Ed è anche molto più improbabile che si sentano nervosi o in ansia (18% vs 40%) o isolati (8% vs 37%)”.
L’essere diversi è anche fonte di un potenziale di leadership che appare evidente quando si guarda a quelli che della propria diversità hanno saputo fare un elemento chiave anche del proprio lavoro: la ricerca cita il caso di un ingegnere della Microsoft che ha assunto il ruolo di “accessibility driver”, garantendo la massima accessibilità dei prodotti della sua azienda. Ancora più sorprendente è il dato che indica che il 75% delle persone con disabilità ha avuto almeno un’idea innovativa che potrebbe portare valore alla propria azienda, e di queste solo la metà riguardava direttamente la propria disabilità.
Come fare per liberare tutto questo potenziale, a beneficio sia delle aziende che delle persone? Il metodo che si sta rivelando più efficace nelle aziende è di carattere culturale: aziende come Accenture, che per prime hanno messo a fuoco la quantità di risorse a rischio a causa della diffusione sempre maggiore di patologie mentali nei propri dipendenti, hanno avviato programmi per formare i dipendenti stessi ad attivare conversazioni e facilitare l’emersione di coloro che si sentono diversi. Sì, si tratta semplicemente di creare luoghi, momenti e circostanze in cui si possa parlare apertamente di sé, per scoprire che siamo tutti in qualche modo “diversi”: per disabilità, orientamento sessuale, condizione familiare, etnia, religione e altro.
La normalità non esiste più: i normali sono una ristrettissima minoranza destinata all’estinzione. Ma i luoghi (anche di lavoro) sono ancora a loro misura, facendo sentire scomodi e inadeguati la stragrande maggioranza di noi: è ora di parlarne (a lungo, ovunque) e liberare così da ogni faticosa gabbia identitaria la “maggioranza anomala”.