Il bambino capovolto: si sta diffondendo una visione distorta dell’infanzia?

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In definitiva, sotto le vesti di questo culto dell’infanzia/noi abbandoniamo il bambino a se stesso/nella gestione della sua difficile situazione:/celebrandolo, lo ignoriamo. (Marcel Gauchet)

E’ pieno di scorci illuminanti, che meritano più di una visita, Il bambino capovolto di Giampaolo Nicolais. Non semplicemente un libro da leggere, ma un libro che non si può non leggere se si hanno dei figli o dei nipoti, o si è impegnati a diverso titolo nella cura, nella difesa e nella tutela dell’infanzia.

Uscendo dai consueti circuiti accademici e dalle riviste di settore, Giampaolo Nicolais – professore associato di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” e clinico dalla lunga esperienza con bambini e adolescenti – decide di rivolgersi al grande pubblico. Grazie ad uno stile comunicativo che coniuga precisione scientifica e bellezza della parola, la riflessione sul vero e quella sul bene, riscontri che provengono dalla psicologia, dalle neuroscienze, dalla genetica e vivaci spunti tratti dalla storia dell’uomo e da quella personale, raggiunge un obiettivo importante: sollevarci dal qui ed ora nel quale ci affanniamo, per lo più distrattamente, per osservare da una prospettiva più ampia l’infanzia, la genitorialità e i processi educativi. Come è cambiato il concetto di infanzia negli ultimi decenni? Quale bambino abbiamo in mente? Cosa vuol dire essere genitori oggi?

bambinocapovoltoSenza alcun dubbio l’attenzione al bambino e alle sue esigenze di crescita non è mai stata così alta. Per millenni si è ritenuto che l’infanzia fosse una fase di mancanza, di incapacità, di “non ancora”, da superare quanto più rapidamente, che il bambino fosse un “adulto difettoso”; trainati da questa visione se ne sono ignorati e trascurati i bisogni primari. Solo con il secolo scorso si è arrivati alla scoperta dell’infanzia e delle sue specificità, grazie alla ricerca medica e psicologica, evidenziandone l’influenza nel prosieguo della vita adulta. Ma cosa è successo dalla fine del secolo scorso ad oggi? Siamo nuovamente di fronte ad un cambiamento di prospettiva epocale, suggerisce l’autore, e la metafora che dà il titolo al libro – illustrata in una copertina nella quale due genitori, che hanno facce ma non volti, vivono ai piedi di un bambino incoronato e posto su un piedistallo ma titubante rispetto al da farsi – esprime la tesi chiave di questo saggio: che “a ridosso del secolo che finalmente ci ha fatto scoprire il bambino, e che tanta ricchezza di prospettive sull’infanzia e le sue caratteristiche ci ha messo a disposizione, si stia diffondendo una visione distorta”. Il frutto di questa distorsione è, per l’appunto, il bambino capovolto.

Da un lato, complici una drastica riduzione nel numero dei figli e l’aumentare dell’età media dei genitori nelle società occidentali, il bambino è spesso solo, cosa che lo rende unico e speciale. Dall’altro abbiamo genitori che vivono per questo figlio, desiderosi di proteggerlo e di allontanare da lui ogni pericolo e minaccia, temendo che anche la più piccola difficoltà possa danneggiarlo irrimediabilmente. Genitori che, al tempo stesso, desiderano piacere ai propri figli (oltre che restare giovani) e che dunque faticano a definire limiti, regole e punizioni. L’esito di questo processo è un bambino vezzeggiato e riverito, ma al tempo stesso fragile, dotato di un grande potere in famiglia ma impaurito e in difficoltà all’esterno di essa, ad esempio a scuola, quando si debbano affrontare regole, conflitti e frustrazioni.

Di quale “centralità” del bambino stiamo parlando dunque? Il culto infantile di cui parla la citazione iniziale di Gauchet, con cui si apre il libro, nulla ha a che fare con l’attenzione per l’infanzia, traducendosi piuttosto in una rinuncia alla sfida educativa da parte dei genitori. Iperattenzione e iperprotezione del bambino, pur rappresentando un’evoluzione rispetto al passato, sembrano infatti racchiudere in sé una nuova forma di occultamento e trascuratezza dei suoi bisogni, di ignoranza “delle verità che il bambino porta con sé”.

Ignoriamo che genetica, neurobiologia e psicologia convergono nell’affermare il concetto di matrice intercorporea dell’identità, vale a dire che il bambino nasce in un “noi”, in un dialogo precoce con il corpo della madre che si sviluppa durante la gravidanza e che non può essere spezzato senza conseguenze per lo sviluppo. Esiste una continuità tra periodo prenatale e neonatale. Come cambia il nostro sguardo sulla maternità surrogata alla luce di queste considerazioni? E, più in generale, cosa succede quando il percorso genitoriale viene spostato dal “regno del possibile e del desiderio” a quello del diritto di un genitore ad avere un figlio con ogni mezzo possibile?

Si sta diffondendo quello che nel libro viene definito pantraumatismo, ossia una tendenza genitoriale a scorgere traumi e minacce ovunque, cui corrisponde una sottostante convinzione che il bambino sia di cristallo, fragile, vulnerabile, che non resista alle avversità e sia dunque da proteggere a oltranza. Anche in questo caso, dimentichiamo quanto la psicologia e la psicopatologia dello sviluppo sostengono da decenni, ossia che il bambino è dotato di resilienza, di competenze adattive e creative, e non ha bisogno di adulti che lo proteggano da ogni dispiacere o si sostituiscano a lui nell’affrontare le sfide della vita: al contrario, ha bisogno di ostacoli per crescere, perché lo sviluppo, fin da quando siamo neonati, si nutre di mancate sintonizzazioni, incomprensioni ed equilibri ritrovati. “Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”, scrive Philip Roth in Pastorale Americana. Nel ripensare alla storia della propria famiglia e dei genitori, molti di noi troveranno vividi esempi di come le difficoltà possano anche rivelarsi occasioni di crescita personale, di riscoperta del valore della vita, di maggiore fiducia, coraggio e determinazione.

Stiamo dimenticando, infine, che i bambini sono “pronti per le cose grandi”, hanno solo bisogno di tempo, di occasioni e di un’educazione alle virtù. Se c’è una verità che la conoscenza sullo sviluppo morale infantile ci consegna, e che è bene custodire come un tesoro prezioso, è che i bambini sono pronti per le cose grandi. Chiunque abbia una minima familiarità con un bambino che frequenti un nido e che piange, contagiato dal pianto di un altro bambino, sa di cosa parlo. Chiunque abbia visto due bambini che usciti dalla scuola materna si dividono il pezzo di merenda rimasto, sa di cosa parlo. Chiunque abbia ascoltato le domande di un bambino che di fronte alla scomparsa di un nonno chiede con insistenza se starà bene di là e se lo si potrebbe andare a trovare, sa di cosa parlo. […]”, scrive l’autore. L’educazione alla moralità necessita però di adulti in grado di stare un passo avanti, non sotto o al posto del bambino: “Solo chi è avanti può indicare una strada a colui che segue, aiutarlo a sviluppare senso morale”.

Questo libro “obbliga a pensare e a confrontarsi”, afferma Massimo Ammaniti nella sua prefazione al saggio appena uscito per le Edizioni San Paolo, “ma questo è quello che accade anche ai genitori nel rapporto con i figli: non occorre avere sempre le risposte giuste, occorre piuttosto sapersi interrogare sapendo che il dubbio può aprire punti di vista e strade diverse”. Sottraendo al silenzio e alla distrazione alcune questioni, Giampaolo Nicolais rivolge un invito al dubbio e ad una maggiore consapevolezza, con un libro innovativo per visione e capacità di decifrare il non ancora pensato.

Nell’argomentare i capovolgimenti che coinvolgono il bambino, ci sottrae all’orizzonte corto nel quale spesso ci muoviamo, consegnandoci un rinnovato vocabolario nel quale riacquistano importanza parole come volontà, umanità, moralità, virtù, forza di volontà e fornendoci un ritratto dell’infanzia nel quale è l’aggettivo grande a fare la differenza: i bambini sono pronti per le cose grandi, hanno bisogno di grandi virtù e di adulti capaci di essere guida e punto di riferimento: in una parola, di essere “grandi”.