Figli virtuali: i dieci comandamenti per sopravvivere al mix adolescenza-web

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Il primo Rapporto Auditel-Censis su convivenze, relazioni e stili di vita delle famiglie italiane, presentato al Senato contiene numeri ansiogeni; se non per tutti, almeno per molti. Il rapporto, come si può leggere sul Sole 24 Ore,dice che il 17,6% dei bambini tra i quattro e i dieci anni possiede il cellulare, il 6,7% utilizza il pc fisso, il 24,2,% il portatile, il 32,7% il tablet e il 49,2% è connesso al web.

child_with_apple_ipadL’ansia, ovviamente, non sta tanto in queste cifre comunque clamorose – difficile spiegarsi a cosa possa servire un cellulare, un pc o un tablet a un bambino di 4 anni se non a svolgere il ruolo di babysitter 2.0 e ipnotica – ma nell’utilizzo degli strumenti e, soprattutto, nella scivolosissima gestione del rapporto figli-tecnologia da parte dei genitori. Specialmente con l’approssimarsi dell’adolescenza.

Suona da psicodramma? E se scopriste all’improvviso che vostro figlio è un cyberbullo? Impossibile? Preferite immaginarlo nel ruolo di vittima? Vale anche per le figlie, ovviamente: fenomeni e ruoli sono democratici e applicano la parità di genere. O magari potrebbero essere protagonisti o vittime di sexting (quando una foto o un video a sfondo erotico vengono inviati imprudentemente a qualcuno di cui ci si fida che poi li diffonde agli amici o in rete). Oppure dedicarsi al vamping: collegarsi ai social, chattare, giocare online per tutta la notte, per poi ciondolare inebetiti a scuola e durante il giorno.

Ok, fin qui gli incubi più ricorrenti.

A questo punto, però, si materializza come Wikipedia quando si ha fretta di verificare qualcosa il libro Figli virtuali, scritto da Annalisa D’Errico e Michele Zizza e pubblicato da Erickson nell’ambito del progetto Erickson Live (che permette di condividere storie, idee, esperienze selezionate, e di pubblicarle attraverso la stampa tradizionale o come ebook o sul web, confrontandosi con i lettori-interlocutori).

children-smartphone2La prima raccomandazione, la premessa a qualsiasi discorso da instillare ai figli sull’atteggiamento corretto verso la tecnologia, emerge dalle parole di Michele Zizza e riguarda lo sforzo di superare la “digital illiteracy”, ovvero l’analfabetismo digitale: per chi si trova in queste condizioni competere con figli nativi digitali è impossibile e la partita è persa in partenza. Non restano che la provvidenza o il karma.

Superato questo ostacolo si può cominciare a ragionare. E il libro lo fa con verifiche sulle competenze degli adulti ed enunciando le principali teorie legate al rapporto bambini-ragazzi/tecnologie. Medici pediatri statunitensi e canadesi sembrano concordi nel ritenere fuori luogo dare in mano device tecnologici a bambini di età compresa tra zero e due anni. In Francia ci si spinge almeno fino a 3 anni. Ma, certo, bisogna fare i conti anche con l’opinione della vicepresidente di Apple Lisa Jackson o dell’esperta inglese di tecnologie Stephanie Shirley secondo le quali i bambini dovrebbero cominciare a programmare dai 2 anni…

texting_mobile_phones_hands_two_text_phone_mobile_cell-595792-jpgdI due autori danno alcune indicazioni preziosi: no divieti intransigenti, magari invece orari o zone off limits. E anche, o soprattutto, no cattivi esempi: inutile predicare bene sui rischi di dipendenza o l’eccessivo uso di smartphone e tablet se poi mentre si parla con i figli si è continuamente distratti da messaggi di Whatsapp o da mail o chiamate.

“I divieti servono, ovvio, ma più delle imposizioni – che andrebbero evitate o limitate al massimo – valgono complicità e scoperte condivise” sottolinea Annalisa D’Errico. Per costruire e alimentare la fiducia, più che mai preziosa quando si tratta di mettere in guardia rispetto a rischi e pericoli.

E non si pensi di spiare smartphone e tablet: le conseguenze nel caso in cui si venisse scoperti potrebbero superare di gran lunga i vantaggi… In fondo ce la si può fare: basta mettere in pratica i dieci comandamenti enunciati alla fine del libro, a cominciare dal primo: avrai una vita all’infuori di me (è la tecnologia che ci parla…).