La conoscenza è potere. O così almeno si crede che possa essere. Per questo l’amministrazione Obama prima e poi il governo britannico hanno messo in atto misure affinché le aziende rendessero note le remunerazione per spaccato di genere. E così si è saputo, ad esempio, che per ogni sterlina guadagnata da un uomo, una donna in busta paga ci trova 41 centesimi. È questa la proporzione delle remunerazioni nel gruppo bancario internazionale HSBC, che in Gran Bretagna si riscopre campione di disparità salariale fra uomini e donne. Il gruppo ha una differenza media di stipendio del 59% a favore dei dipendenti uomini. Una situazione non anomala fra le aziende, e non solo in Gran Bretagna, dove la differenza salariale media è al 18% con picchi altissimi nella finanza. In Goldman Sachs il divario è del 55,5% senza contare, poi, che il divario in fatto di bonus sale al 72 per cento. Non va meglio negli altri grandi gruppi bancari: per le donne che lavorano in Barclays la busta paga è più leggera del 48% rispetto ai colleghi; in Bnp Paribas il divario è del 38% e scende al 31% in Ubs.
I dati sono stati resi noti per “obbligo”: le aziende con oltre 250 dipendenti, in base all’Equality Act del 2010, devono comunicare entro il 4 aprile le differenze salariali al loro interno. Questo ha permesso di iniziare a costruire una mappa delle disparità nella City. Ad oggi, però, solo 2700 aziende su 9mila hanno comunicato i dati richiesti al sito del governo preposto alla raccolta. Si attendono al varco soprattutto gli altri grandi gruppi bancari americani che operano nel Paese.
La Gran Bretagna non è un unicum
La soluzione britannica di imporre una disclosure dei dati dei salari suddivisi per genere non è affatto un unicum a livello internazionale. La legge tedesca, ad esempio, prescrive per le imprese con oltre 200 impiegati di render conto, a chi vuole saperlo, di quanto viene pagato un collega per la stessa prestazione lavorativa. Nel provvedimento sono coinvolte 18 mila imprese tedesche. Mentre circa 4.000 imprese con oltre 500 impiegati dovranno regolarmente fornire dei rapporti proprio sul trattamento salariale, chiarendo quindi quanto gli stipendi siano effettivamente “allineati”. La misura si è resa necessaria dal momento che lo scarto di stipendio fra uomini e donne in Germania è del 21% circa.
In Islanda il governo ha deciso di fare un passo in più: la legge prevede che i datori di lavoro forniscano documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetta la parità retributiva tra gender. Il controllo del rispetto della gender equality salariale non è, però, solo teorico. È stato, infatti, affidato alla Lögreglan (polizia), alla polizia tributaria e anche al reparto scelto delle forze dell’ordine. I controlli inizieranno dal 2018 e termineranno entro il 2022.
Negli Stati Uniti era stata l’amministrazione Obama a dare una svolta nel 2009, quando il presidente firmò Lilly Ledbetter Fair Pay Act, cui ha fatto poi seguito The White House Equal Pay Gap del 2016. Quest’ultimo, già siglato da oltre 100 società, è l’impegno volontario a dare visibilità delle politiche di remunerazione interne e dei dati relativi agli stipendi.
Anche in Italia esiste una norma sulla trasparenza
E l’Italia? Forse non tutti sanno che anche da noi esiste una normativa al riguardo. Si tratta dell’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. La legge prevede che le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti siano tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. I dati andrebbero consegnati alle rappresentanze sindacali e alle consigliere di parità. In caso di non ottemperanza la ratio finale è la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda. Eppure di dati , soprattutto sullo spaccato delle retribuzioni per genere a parità di livello e mansioni, non si parla.
Ma la legge c’è. E allora perché non esistono eserciti di associazioni, gruppi, ordini professionali di donne che reclamino questi dati? Perché le divisioni femminili dei sindacati non chiedono che venga rispettata la legge? Perché a noi donne non ci interessa conoscere? E dirò di più: non solo non chiediamo i numeri, ma anche quando ci vengono forniti, prestiamo loro un’attenzione minima. Non ci indignamo. Non ci alziamo per andare a bussare alla porta del nostro capo a chiedere lo stipendio.
Come lo so? Facciamo una scommessa: questo post, come tutti quelli che riguardano le differenze salariali, sarà letto da qualche centinaio di persone e ben poco commentato. Poi però guardiamoci in faccia e diciamoci che ce lo meritiamo di guadagnare la metà dei nostri colleghi. Non per il lavoro che facciamo, ma perché siamo incapaci di dare a quel lavoro il giusto valore. E di farlo riconoscere.