Passato e onorato l’8 marzo, vale la pena di affrontare a testa alta la realtà e trovare il coraggio di raccontare davvero come stanno le cose. Al di là dei numeri, dietro i numeri, a corredo dei numeri, perché se non partiamo da una visione autentica di ciò che succede nel mercato del lavoro, sarà difficile fare un salto di qualità.
Quello che ci serve, per mettere le basi di un vero rinnovamento, è un’operazione di trasparenza da parte di chi è testimone, ma anche attore, di quanto succede nelle aziende, negli studi professionali, nelle università, nei centri di ricerca, nel mondo dell’arte, nella pubblica amministrazione, ecc. e decide di prendere una posizione. Nulla di rivoluzionario, “solo” un atto di onestà intellettuale per il bene dei più e non di pochi.
Sentite cosa ci raccontano tre esponenti delle professioni, delle università e delle aziende.
Giulietta Bergamaschi. Avvocato del lavoro, partner Lexellent
«Nel dibattito sul lavoro, nelle aziende, mi capita sempre più spesso di sentire direttori del personale e anche amministratori delegati che affermano concetti come “avrei bisogno di assumere un certo numero di persone qualificate ma con le caratteristiche che mi servono, semplicemente, non le trovo”. Ho sentito ripetere frasi del genere talmente tante volte da convincermi che si tratti di un problema reale. Sappiamo però che le aziende, soprattutto in Italia ma in realtà in tutt’Europa, sono spesso restie ad assumere “solo” giovani che arrivano dall’università, se non altro perché i tempi e i costi di formazione interna, “on the job”, sono molto elevati e con un alto rischio che il lavoratore, una volta formato, vada altrove a monetizzare le competenze acquisite: meglio puntare su un lavoratore più anziano e già “rodato”. Assistiamo così a un mercato del lavoro che vede masse crescenti di lavoratori considerati non qualificati che vorrebbero entrare nel mondo del lavoro e pochi “eletti” iperqualificati corteggiatissimi: troppo pochi per le esigenze delle aziende e nella stragrande maggioranza maschi. E se donne, donne che hanno dovuto venire a patti con numerosi sacrifici, senza necessariamente rinunciare a farsi una famiglia, alla maternità, ma imponendosi un rigore che agli uomini non è richiesto. O donne che, come testimoniano i dati, hanno desistito dopo la maternità. Oggi le aziende più avvedute, le multinazionali, hanno cominciato ad accorgersi di questa “miniera” di competenze e capacità inutilizzate e a puntare ad assunzioni mirate proprio in quest’area. Ma anche le pmi non possono più permettersi di ignorare una “miniera” del genere».
Luca Solari. Professore ordinario, Università degli studi di Milano
«Uno degli ostacoli più importanti alla crescita professionale delle donne all’interno dell’organizzazione è legato al fatto che tendono ad essere meno disposte a sostenere le persone dello stesso sesso e quindi più neutre e più meritocratiche rispetto ai maschi. I problemi nelle organizzazioni poi sono un portato di una cultura maschilista che scorre profonda nel nostro Paese come si scopre quando si vive abbastanza a lungo in un paese meno tradizionalista. Nell’ambito universitario, non si può generalizzare, ma è evidente dai dati che la situazione non è molto diversa, con una progressiva riduzione della quota femminile al crescere del ruolo. In parte, questo dipende da una cultura femminile della disponibilità, che fa sì che le colleghe siano più spesso coinvolte in attività di supporto, cosa che – unita al tema maternità – crea un oggettivo ostacolo, perché riduce il tempo dedicato alla ricerca. Soprattutto da quando le procedure concorsuali sono più collegate alla produttività questo è un problema. Prima diventava l’alibi. Poi, esiste una sotterranea cultura maschilista collegata al fatto che una gran parte dei processi interni siano processi di potere, in cui la cultura del maschio alfa dominante conta molto. La crisi di attrattività della carriera universitaria sta portando ad una sempre crescente proporzione di donne che entrano in questa carriera ma questo non è un riflesso di una maggiore equità, semmai il contrario…Il cambiamento deve essere culturale e partire dalla costruzione di modelli sociali meno distorti e modelli di mentorship al femminile sono senz’altro utili. Sarebbe ora però che non fosse un tema di donne per donne, ma che fossero gli uomini a prendersi carico anche di queste attività di mentorship. O non riempiamoci più la bocca della retorica del talento…»
Luisa Bagnoli. Ceo di Beyond International
«Quello che vedo dal mio osservatorio, è una predominanza schiacciante di uomini, bianchi, over 60 nelle posizioni di comando in tutto il mondo occidentale e, a maggior ragione, nei paesi di cultura latina come l’Italia. Questo fa sì che gli stereotipi di cui è imbevuta – e spesso inconsapevole – la cultura dominante, maschile appunto, rende molto difficile uscire da una spirale funesta che alimenta quella che si definisce “la profezia autorealizzantesi”. Mi spiego meglio: gli uomini al comando hanno ancora una gran paura delle donne assertive, perché nella loro mappa mentale non sono gestibili, e quindi o non le selezionano affatto, scegliendole a caso, o, se le scelgono, le scelgono meno talentuose di altre così da gratificare il loro ego. E va detto che succede anche nella scelta di collaboratori uomini. Credo che per uscire da tale circolo vizioso, imporre l’inclusione e pretendere di insegnarla non sia la cosa giusta perché in questo modo non facciamo altro che alimentare il conflitto, forzando chi è dentro a includere e chi è fuori a entrare. La vera risposta è oltre le differenze di genere, in quella che io chiamo leadership 4.0: chiariamoci chi vogliamo essere e dove vogliamo andare, oltre i pregiudizi culturali che noi stessi alimentiamo. Recuperiamo autenticità, sospendendo i facili giudizi. Oggi la leadership ha di sicuro bisogno di capacità (soft skill) tipicamente femminili, che non per forza sono espresse da donne, ma che andrebbero sviluppate da uomini e donne insieme. Come l’intelligenza emotiva e sociale, e quindi l’empatia, la partecipazione, il coinvolgimento, il coraggio. Si tratta di lasciare libero l’emisfero destro del cervello, quello intuitivo che anticipa i problemi, a differenza del sinistro che è un problem solver indiscusso. Tutti, uomini e donne, dovremmo allenarlo».